di Stefania Rotondo

“Show it, don’t tell” è il motto degli scrittori. “Non dirlo, mostralo!”. I bravi comunicatori procedono come gli scrittori. Non raccontano; mostrano, narrano. Perché quando si vuole comunicare con efficacia si deve sapere che raccontare è essenzialmente informare, mentre narrare è sostanzialmente emozionare.

Nel racconto della guerra in Ucraina, Zelensky e Putin questo lo sanno fare molto bene. Il loro, in modalità opposta, è un efficace storytelling da invaso e da invasore, da capo di una democrazia e da capo di una democratura. Emozionano utenti con esigenze differenti. Da una parte gli ucraini e tutti gli occidentali che, invasi, vogliono sentirsi dire che la libertà è al primo posto e che combattere per essa è la priorità. Dall’altra parte i russi che, invasori, reclamano la versione che occupare è stato necessario e che l’imperialismo non è il loro ma quello degli altri.

Narrando questa storia vecchia come il mondo, Zelensky e Putin costruiscono la storia perfetta. C’è un eroe e un antieroe, la chiamata del buono e le sfide che il cattivo crea, la prova e il cambiamento finale. E poi ci sono gli alleati, che in una storia degna di questo nome vanno portati dalla propria parte e fanno la differenza. È insomma una storia vincente, che appassiona tutti, da una parte e dall’altra, e che non delude nessuno.

Parafrasando Albert Einstein, noi sappiamo con quali armi verrà combattuta la Quarta Guerra Mondiale, ma sappiamo ormai anche con quali si stia combattendo la Terza. Al momento a suon di bombe reali in terra di Ucraina, ma anche demografiche ed economiche, alimentari ed energetiche, che l’Occidente ha solo cominciato a patire. Questa però è la guerra del terzo millennio, l’era della parola e del multimediale. È una guerra cognitiva, fatta di narrazioni multifaccia, di fake news, di social media, hacker attacks, falsificazioni propagandistiche. Una vera e propria apocalisse intellettiva.

Le narrazioni dell’eroe e dell’antieroe procedono in parallelo, con l’intento della prevaricazione. Ognuno, dotato dell’arma comunicativa che appartiene alla propria fazione, evoca, narra, con l’intenzione di convincere l’opinione pubblica mondiale. Zelensky, il buono, l’invaso, l’eroe delle democrazie, emoziona parlando di resistenza ai parlamenti occidentali, sedi fisiologiche delle rappresentanze dei popoli. Putin, il cattivo, l’invasore, l’antieroe democraturista, parla da solista di un nuovo impero, e appassiona il suo popolo negli stadi o nel suo ufficio nel Gran Palazzo del Cremlino.

Zelensky in camicia militare, con la barba lunga, la bandiera dell’Ucraina alle spalle, evoca il Muro di Berlino, l’Olocausto, Winston Churchill, William Shakespeare, Justin Trudeau, Pearl Harbor, l’11 settembre, la generosità dimostrata agli ucraini, richiamando immagini che fanno parte delle identità dei popoli a cui si rivolge. Putin, in giacca e cravatta o in maglione e piumino, aduna il suo popolo, cita il Vangelo, parla ai russi che si sentono multinazionali, uniti da un destino comune su questa terra, e li emoziona evocando un mondo senza nazismo, per la Russia, per il Presidente.

In questa guerra cognitiva non c’è, come pensano in molti, una narrazione unilaterale. Non c’è chi sta vincendo e chi sta perdendo. C’è solo una competizione di cultura, di mentalità, di prospettive. E se non capiamo questo la Terza Guerra Mondiale passerà alla bombe vere, quelle che fanno male. E allora sì che ci toccherà combattere la Quarta con pietre e bastoni.

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