“Donne in attesa di un figlio discriminate”. Non è la prima volta che una storia di violazione del diritto all’uguaglianza sul lavoro finisce in Tribunale ma questa è la prima sentenza che riguarda Ita il cui presidente Alfredo Altavilla – come rivelato dal FattoQuotidiano – voleva metà degli ex dipendenti Alitalia fuori dalla nuova società. Il giudice di Roma, Claudio Cottatellucci, ha ordinato ad Italia Trasporto Aereo s.p.a. “la cessazione del comportamento illegittimo consistente nell’esclusione delle candidate in gravidanza e puerperio dalla procedura di selezione ed assunzione per le assistenti di volo”, l’ha condannata al pagamento in favore di due assistenti di volo al risarcimento di oltre 22mila euro e al pagamento delle spese. Il magistrato, tabelle Inps alla mano, ha eseguito anche un calcolo statistico da cui si evince che delle 412 assistenti di volo assunte, fino a questo momento, da Ita “nessuna è andata in astensione obbligatoria per maternità”. Per il giudice “almeno 6 o 7 donne in gravidanza avrebbero dovuto essere assunte”.
Nel loro ricorso le lavoratrici hanno evidenziato “che tutti i lavoratori selezionati da Ita erano poi stati assunti, che i criteri adottati nella scelta erano del tutto oscuri, che erano state a loro preferite altre lavoratrici con minore anzianità ed esperienza nel ruolo lavorativo, che la procedura di assunzione si era risolta nell’invio di una mail che comunicava l’avvenuta assunzione ed una lettera da restituire firmata”. La società davanti al giudice ha sostenuto che solo al completamento del piano (previsto nel 2025) sarebbe stato possibile verificare eventuali comportamenti discriminatori, che trovandosi in una fase di start-up non sarebbe tenuta “ad osservare alcuno specifico criterio selettivo” tranne quelli concordati con i sindacati, di non essere stata al corrente del fatto che le due assistenti fossero in gravidanza. Ita ha anche osservato che le due donne, al momento dell’invio delle candidature, avessero il recurrent training (abilitazione per operare a bordo in qualità di membro di equipaggio di cabina) in scadenza. Per altre lavoratrici chiamate in causa la società ha affermato che mancava non solo quella certificazione, ma in tre casi il possesso del Green pass.
Il giudice – dopo aver esaminato le testimonianze – ha quindi osservato che la società “ha già realizzato oltre la metà” del piano (fino al mese scorso erano stati assunti 2.925 sui 5.750 previsti), che il verbale firmato con i sindacati ovviamente prevede il divieto di discriminazione, che le due donne hanno dimostrato che erano in possesso sia di certificato verde che certificazione di idoneità medico legale. Quello che era invece non scaduto ma in scadenza era recurrent training che “si ottiene con l’attestazione di frequenza ad un’attività di aggiornamento di breve durata, uno o due giorni, che viene ripetuta periodicamente, in genere con cadenza annuale”. Due-tre giorni di corso e la certificazione viene ottenuta. Il giudice ha invece respinto la richiesta di assunzione da parte delle assistenti perché “esorbita dal potere giudiziale”.
“Si tratta di una decisione importante perché afferma un principio di civiltà che ancora oggi nella pratica è tutt’altro che scontato: il diritto delle donne lavoratrici a non subire un trattamento pregiudizievole a causa dello stato di gravidanza. L’esclusione, nell’ambito delle procedure di assunzione, delle lavoratrici in gravidanza – ricorda l’avvocato Sergio Romanotto che ha seguito la causa con le avvocate Tiziana Laratta e Francesca Verdura – costituisce una discriminazione. Il Tribunale di Roma ha così ordinato la cessazione del comportamento illegittimo, condannando anche la società al risarcimento del danno”. La notizia della sentenza si è presto diffusa nelle chat dei lavoratori e non è escluso che altri casi simili siano portati al vaglio della magistratura.