È quanto emerge da una relazione di Arpa Puglia: pur restando nei limiti di legge, quelle emissioni possono comunque avere effetti nocivi sulla salute umana. Il tutto per produrre meno delle 6mila tonnellate all'anno chieste dal governo per sopperire alla mancanza di acciaio causa Covid e guerra in Ucraina
Sono cominciate il 21 marzo le operazioni di ripartenza dell’Altoforno 4 dell’ex Ilva di Taranto e pochi giorni dopo le emissioni di inquinanti e cancerogeni sono schizzati alle stelle. È quanto emerge da una relazione di Arpa Puglia inviata nelle scorse ore al Comune di Taranto, all’Asl ionica e soprattutto all’Ispra, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, l’autorità di controllo sul percorso di “ammodernamento” e rispetto delle regole della fabbrica tarantina. Nella missiva i vertici di Arpa hanno evidenziato una serie di “criticità” captate dalle centraline di monitoraggio della qualità dell’aria sistemate sia all’interno che all’esterno dello stabilimento. In particolare sotto la lente di Arpa sono finite le giornate del 22, 23 e 24 marzo caratterizzate significativi incrementi delle concentrazioni degli inquinanti gassosi, in particolare biossido di zolfo e benzene, quest’ultimo particolarmente pericoloso poiché classificato come cancerogeno di “classe 1”, cioè una sostanza per la quale è scientificamente provata la correlazione tra esposizione e sviluppo di tumori nella popolazione.
Tutto è cominciato il 22 marzo scorso intorno alle ore 19, quando la centralina di via Machiavelli al quartiere Tamburi, il rione a pochi metri dalla fabbrica gestita oggi da Acciaierie d’Italia, ha registrato un valore di concentrazione media oraria di biossido di zolfo pari a 910 microgrammi al metrocubo: un valore ben più elevato del limite orario, ma inferiore alla soglia di allarme di 500 microgrammi per 3 ore consecutive. Nelle due ore successive, insomma, il valore di emissione di biossido di zolfo si è ridotto al punto da portare la media delle tre ore al di sotto della soglia d’allarme, ma anche le centraline disseminate sul perimetro cittadino hanno registrato, seppur con valori differenti, il picco segnalato dal dispositivo più vicino alla fabbrica. “Nei giorni seguenti, il 23 e 24 marzo – scrive Arpa – la concentrazione di SO2 (biossido di zolfo, ndr) si è mantenuta elevata rispetto ai normali trend pur senza registrare altri superamenti dei limiti normativi”.
Ma nella stessa relazione, l’agenzia di protezione ambientale ha chiarito che il 23 marzo “si è osservato un aumento delle concentrazioni di benzene: in particolare, dalla notte tra il 22 e il 23/03 si sono registrati incrementi evidenti e molto correlati di benzene” sia all’interno che all’esterno della fabbrica dove tuttavia “il valore medio giornaliero non ha superato i 5 microgrammi per metro cubo”. Insomma nonostante i picchi siano particolarmente elevati, Acciaierie d’Italia non ha superato i limiti giornalieri. Una situazione che ricorda i fatti accaduti a febbraio 2020 che spinsero l’allora sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, a firmare un’ordinanza per lo spegnimento degli impianti dell’area a caldo. Il provvedimento dell’ex primo cittadino fu ritenuto legittimo dal Tar di Lecce che nella sentenza in cui confermava lo spegnimento degli impianti inquinanti (poi annullata dal Consiglio di Stato), per la prima volta, affermò che il rispetto dei parametri emissivi previsti dall’autorizzazione integrata ambientale non basta a garantire “l’esclusione del rischio o del danno sanitario”.
In definitiva anche restando nei limiti di legge, quelle emissioni possono comunque avere effetti nocivi sulla salute umana. A questo inoltre si aggiunge anche il dato fondamentale certificato proprio da Arpa Puglia, insieme ad Aress e Asl Taranto, che nella valutazione del Danno Sanitario per l’ex Ilva hanno confermato che in caso di una produzione annua di 6 milioni di tonnellate d’acciaio, anche con l’attuazione di tutte le misure previste dall’Aia, il rischio per la popolazione tarantina non è accettabile. Eppure nei giorni scorsi, Mario Draghi ha annunciato misure per sostenere l’ex Ilva chiamata a produrre più acciaio per sopperire alle carenze di prodotti dovute prima all’emergenza Covid e poi alla guerra in Ucraina. Una volontà che ha innescato una catena di eventi che rischia di riportare i tarantini agli anni precedenti al sequestro del 2012. Acciaierie d’Italia, infatti, punta ora a far crescere la quota d’acciaio prodotto dalle 4,7 milioni di tonnellate del 2021 alle 5,5 milioni di tonnellate nel 2022 e per farlo è necessario far ripartire l’altoforno 4. Un processo di ripartenza che, oltre a generare “emissioni transitorie”, avvicina sempre più a quelle 6 milioni di tonnellate annue che comporterebbero, per gli organi di controllo, un danno sanitario non accettabile. E se a febbraio 2020 l’allora sindaco di Taranto tentò di salvaguardare la salute dei tarantini, oggi a guidare il Comune c’è un commissario prefettizio, Vincenzo Cardellicchio, che insediandosi a novembre scorso chiarì la sua posizione rispetto alle controversie con il Governo sull’ex Ilva: “Pensare che un’amministrazione locale debba entrare in conflitto con lo Stato significa non conoscere le regole della democrazia. Il Comune di Taranto – aggiunse il commissario – è più Stato di qualunque altro”.