Antonio Tabucchi scrive ne I volatili del Beato angelico, riportando il dialogo tra un uomo di mezza età e una giovane donna che sta per rivelargli la sua imminente paternità (e lo scritto si chiama, non a caso, Le persone felici): “punto primo: devi studiare i minori, sono i minori che fanno la carriera, i maggiori li hanno studiati già tutti”.

Dunque per scrivere questo ricordo di Tabucchi a dieci anni dalla morte, sono andata a riprendermi i suoi libri più discreti e minuti, frammentari; d’altronde, “ciascuno ha il diritto di trattare i propri sogni come meglio crede”, scrive nel Prologo delle Donna di Porto Pin, e i sogni di Tabucchi sono meravigliosi, drammatici e crudi. Tattili, freschi di sontuosi paesaggi e di poesia. E io qui voglio percorrere la stessa strada percorsa da lui, lasciandomi trasportare dalle sue pagine più libere, meno incatenate dalla logica di una storia compiuta di un racconto (bellissimi sono d’altronde quelli raccolti in Il gioco del rovescio) o di un romanzo (come il celebre Sostiene Pereira che, nel 1994, gli valse il premio Campiello).

Rileggendo queste sue raccolte più sincopate e “disordinate” mi accorgo che ‘Sogno’ è una parola che compare spessissimo nei suoi testi, e il più delle volte è accompagnata da ‘Morte’; in questo Tabucchi ‘minore’ c’è un limpido e bellissimo dialogo continuo tra sogno e morte, tra vite possibili e vite impossibili; vivere quelle agognate o quelle temute non fa differenza. In Notturno indiano, il protagonista parte alla ricerca di Xavier ma alla fine non sa più chi e cosa stia cercando, forse semplicemente se stesso. Allargare al sogno e alla morte la propria scrittura mi appare allargare, grazie a queste due entità, anche la propria vita.

Uno scritto che si apre e si chiude con la parola ‘sogno’, è Esperedi. Sogno in forma di lettera, in Donna di Porto Pin. Qui su ognuna della nove isole dell’arcipelago viene adorato un dio, iniziando da quello del Rimorso e della Nostalgia, passando per quello della Felicità. Scrive Tabucchi del dio della Felicità: “la felicità di chi ha compreso così pienamente il senso della vita che per lui la morte non ha più nessuna importanza”. Sull’isola dell’amore, dove viene adorato il dio dell’amore e dove si conclude il vagabondaggio e il sogno del narratore, non c’è il tempio del dio, perché il dio dell’amore si manifesta attraverso il suono del mare. Ancora una volta ciò che nasce e muore, l’amore come suono che monta e sfuma, che ruggisce e sussurra, che si fa silenzioso e poi ciarliero. Che esiste e non esiste.

Il mare, l’Oceano, il sogno e la morte, sono nei libri di Tabucchi carichi di significati, di odori; scogli e sabbia, sono approdi di una vita e dispensatori di sogni e di morte. Il canto, mare e morte sono al centro del racconto della donna-murena, la donna di Porto Pin che dà il titolo al volume, dove a raccontare è un assassino che vuole regalare a un italiano la sua storia di musica, magia, amore e tradimento.

Sogno e morte vanno a braccetto armoniosamente nella loro normalità anche nel piccolo capolavoro intitolato: Antero de Quental. Una vita. Uno dei miei preferiti. Tabucchi, con pochi magistrali tocchi, racconta l’esistenza del poeta ottocentesco che “soffriva di infinito” fino a quando “nei suoi scritti cominciò ad apparire la parola Nulla che gli pareva la forma più perfetta della perfezione” e allora, comprata una rivoltella, incontrata la scimmia che sognava da anni, nella piazza assolata e deserta dell’isola della sua infanzia si spara due colpi in bocca.
Ma Tabucchi è anche capace di farmi sorridere raccontando della morte: come nel testo presente in I volatili di Beato angelico, dove in Ultimo invito racconta le graffianti e invitanti frasi delle innumerevoli imprese funebri di Lisbona per procacciarsi i clienti attraverso la pubblicità sui giornali.

“Ipocondria, insonnie, insofferenze e struggimenti sono le muse zoppe di queste brevi pagine” scrive nella Nota premessa a I volatili di Beato Angelico: ed io in questi tempi mi sento a casa tra questi testi.

Ho sempre avuto la sensazione, leggendo Tabucchi, di averlo di fronte. Il suo modo di raccontare contiene tuttora, misteriosamente, un “tu” che mi dà la sensazione fisica di ascoltare la sua voce, di fissarlo negli occhi puntuti protetti da lenti spesse.

Credo che il segreto della mia fedeltà e ammirazione per questo scrittore sia nel suo assoluto desiderio di sincerità, intesa non come fedeltà a una realtà oggettiva (a cui Tabucchi, per primo, non credeva), quanto piuttosto una sincerità di questo tipo: “Ciò che lo scrittore esibisce di se stesso non sono le sue segrete grazie…ma i fantasmi che lo assediano, la parte più brutta di se stesso: le sue nostalgie, le sue colpe e i suoi rancori”, scrive in I volatili di Beato Angelico.

So che questo mio ricordo non è esauriente, ma se avessi lo scrittore davanti è di morte, oceano e sogno che vorrei sentirlo parlare. E anche se sono passati ormai più giorni dal 25 marzo, giorno della sua morte nel 2012, mi rifugerò, in questa primavera di guerra, nelle sue luminosissime parole.

Lo scrittore Andrea Bajani, che è stato a lungo amico di Antonio Tabucchi, ha dedicato alla loro amicizia il libro Mi riconosci. Leggetelo se volete far rivivere lo scrittore nella sua completezza e conoscere il suo modo di andare incontro alla malattia e alla propria fine.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Caserta si prepara al 250esimo di Vanvitelli, il genio che (per i Borbone) regalò all’Italia la Reggia: il “prodigio” che unisce arte e natura

next
Articolo Successivo

‘Wargasms: Orgasmi di guerra’, il linguaggio bellico per descrivere la pandemia

next