L’Italia era uno degli ultimi paesi europei a non aver ancora recepito la decisione del Consiglio Ue che ha adottato la protezione temporanea per i profughi dell’Ucraina. Dopo ventiquattro giorni, il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha finalmente firmato il decreto che attua la direttiva 55 del 2001, a partire dalle persone alle quali destinare la protezione, platea che il Consiglio Ue consente agli Stati di estendere e che la Commissione europea invita ad allargare. Ma la maggior parte dei paesi membri, e da oggi anche l’Italia, ha respinto l’invito, limitando la protezione temporanea agli ucraini e a coloro che già godevano dello status di rifugiato o di una protezione equivalente, e lasciando fuori milioni di stranieri regolarmente residenti in Ucraina. A pretenderne l’esclusione, e la possibilità di trattarli in base al proprio diritto nazionale, erano stati in particolare Polonia, Ungheria, Cechia e Slovacchia. Ma a un mese dal Consiglio Ue, quella del blocco di Visegrad si rivela come la posizione prevalente, con buona pace della Commissione e dell’Agenzia Onu per i rifugiati (UNHCR), che aveva chiesto di dare protezione a tutti quelli che scappano dall’Ucraina. “E’ la conferma che non possiamo confondere l’approccio alla crisi ucraina con un reale cambiamento nell’orientamento dei paesi Ue sull’immigrazione”, commenta Chiara Favilli, esperta di politiche europee di asilo e docente di diritto dell’Unione all’Università di Firenze.
La protezione temporanea, della durata di un anno a decorrere dal 4 marzo 2022 e rinnovabile fino a un massimo di due, “si applica in favore dei cittadini ucraini residenti in Ucraina prima del 24 febbraio 2022, agli apolidi e ai cittadini di paesi terzi che beneficiavano di protezione internazionale o equivalente prima dell’inizio del conflitto e ai loro familiari”. E’ quanto si legge nel decreto della presidenza del Consiglio firmato dal premier. Il documento attua anche in Italia la direttiva adottata dal Consiglio Ue, che di fronte alla crisi ucraina riconosce a determinate categorie di persone una protezione immediata che non necessita dell’iter, spesso lungo, al quale si sottopone chi fa la classica richiesta d’asilo. In questo caso, la richiesta viene fatta direttamente in questura, il rilascio dovrebbe essere questione di giorni e l’esito è garantito. La decisione dell’Italia è in linea con quella della maggior parte dei paesi dell’Unione europea, che solo in pochi casi hanno approfittato della possibilità di estendere la protezione ad altre categorie di persone in fuga, a partire dagli stranieri regolarmente residenti in Ucraina. Tra gli ucraini vivono infatti cinque milioni di stranieri, e a pochi giorni dall’inizio dell’invasione russa erano già 100mila quelli usciti dal paese. Nella maggior parte dei paesi Ue, però, la protezione temporanea sarà loro preclusa. Una scelta che l’avvocato Dario Belluccio (ASGI) definisce “pericolosamente etnocentrica”. Se vorranno rimanere in Europa, magari nella speranza di tornare in Ucraina appena possibile, dovranno fare regolare richiesta d’asilo e dimostrare di non poter rientrare stabilmente e in modo sicuro al loro paese d’origine. Percorso che con tutta probabilità innescherà flussi secondari, anche irregolari, tra paesi europei, selezionati in base alla permeabilità delle leggi sull’immigrazione.
Nonostante l’emergenza suggerisca il massimo grado di coordinamento, l’Unione europea torna a muoversi in ordine sparso, incapace di applicare uniformemente la direttiva sulla protezione dei profughi. Con il recepimento da parte dell’Italia, infatti, si completa un quadro drammaticamente disomogeneo. Paesi come Spagna, Croazia, Finlandia e Paesi Bassi hanno deciso di estendere l’applicazione della protezione anche a titolari di permesso di soggiorno non permanente, ottenuto ad esempio per studio o lavoro, e la Germania ha ulteriormente allargato a chi non aveva ancora ottenuto la residenza permanente o la protezione internazionale in Ucraina. Ma questo è tutto. Gli altri paesi, Italia in coda, hanno preferito applicare ai non ucraini il proprio ordinamento nazionale, affidando le persone che non sono in grado di rientrare nel paese d’origine ai tempi lunghi e all’esito incerto dell’iter per la richiesta d’asilo. Eppure, a opporsi all’iniziale proposta della Commissione europea, che proponeva di offrire la protezione a tutte le persone in fuga dall’Ucraina, sembravano essere solo un pugno di paesi. E chi alla vigilia del Consiglio Ue si era detto pronto a votare l’inclusiva proposta della Commissione, avrebbe potuto estendere l’applicazione della protezione in sede di recepimento della direttiva. Invece no. E se Belgio, Cipro, Grecia, Malta, Norvegia e Slovenia si sono fermati alle categorie esplicitamente individuate dal Consiglio, e cioè ucraini e titolari di protezione internazionale o equivalente, molti di più sono gli Stati che hanno deciso di applicare la direttiva in modo restrittivo.
In paesi come la Svezia, la Slovacchia, la Lituania, l’Estonia e la Bulgaria, ma anche in Polonia e in Francia, la normativa che recepisce la direttiva spesso nemmeno contempla i cittadini non ucraini, e al più menziona chi già era rifugiato o titolare di altra protezione in Ucraina. Nemmeno i soggiornanti permanenti, categoria marginale ed elitaria ma espressamente citata dal Consiglio, rientrano nelle decisioni prese dalla maggioranza dei paesi Ue. Anzi, la legge attuativa francese parla esplicitamente di “colloqui individuali in prefettura” per provare davvero di non poter rientrare nel paese d’origine. Un atteggiamento confermato dai respingimenti di cittadini di paesi terzi sfollati dall’Ucraina sul confine di Ventimiglia e dalle accuse di Amnesty International che proprio oggi accusa la Francia di disparità di trattamento tra ucraini e afghani. “La crisi ucraina purtroppo dimostra di essere una bolla, non un cambio di passo da parte dell’Europa nelle politiche sull’immigrazione e l’asilo”, ragiona la docente Favilli. Che sottolinea un paradosso: “Proprio sull’onda della solidarietà verso la popolazione ucraina, il Patto su immigrazione e asilo, da tempo in discussione al Parlamento europeo, potrebbe finalmente essere approvato. Ma le misure contenute in quel Patto sono tutte frutto di questa logica di scarsa cooperazione e di non inclusione: il patto tende proprio ad assecondare il tipo di approccio che anche in questa occasione i governi hanno confermato”.
Disattese le linee guida della Commissione Ue sull’applicazione della direttiva – “la Commissione incoraggia gli Stati membri a usare la loro discrezione e a includere categorie più ampie di persone nella loro legislazione di attuazione” – rimane da vedere in che modo sarà applicata la legislazione nazionale agli sfollati dal conflitto che non rientrano nella protezione temporanea Ue. In Polonia, solo per citare il paese che ad oggi ha visto entrare la maggior parte degli sfollati dall’Ucraina, negli ultimi anni le richieste d’asilo accolte in prima istanza non hanno superato il 16 percento. E in seconda istanza quelle respinte sono il 99 percento. Scrive ancora la Commissione lo scorso 17 marzo: “Qualora gli Stati membri scelgano di fornire un’altra forma di protezione adeguata ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, della decisione del Consiglio, tale protezione deve essere in linea con le garanzie della Carta dei diritti fondamentali e lo spirito della direttiva, e la dignità umana deve essere assicurata in ogni momento”. Quanto alle persone che rientreranno nell’assistenza al rimpatrio, la Commissione raccomanda il rilascio di permessi nazionali di durata limitata per permettere a queste persone di accedere ai servizi di base. Tutte cose che si sarebbero potute definire attraverso la decisione del Consiglio Ue, e che invece, aggiunge Belluccio dell’ASGI, “nemmeno gli Stati hanno dimostrato di saper risolvere internamente per evitare i problemi che l’applicazione selettiva della protezione rischia di generare”. E in questo moto in ordine sparso gli Stati sembrano puntare più spesso nella direzione dei paesi di Visegrad che in quella della Commissione europea.