Per la funzione funebre ella Chiesa del Sacro Cuore, a pochi passi dalla stazione, proprio dove l'attore, morto a 81 anni, aveva abitato per tanto tempo, non c’era che qualche decina di persone. Assente ingiustificato e visibilissimo: il Comune di Bologna. Il regista: "La cosa che non viene sopportata è la non appartenenza. La libertà di non essere collocato, etichettato, ricondotto a un certo contesto è imperdonabile"
“Odio questa città”. Davanti al feretro dell’amico di sempre, l’attore Gianni Cavina, morto pochi giorni fa ad 81 anni, il regista Pupi Avati si lascia andare allo sconforto contro la sua Bologna. Per la funzione funebre ella Chiesa del Sacro Cuore, a pochi passi dalla stazione, proprio dove Cavina aveva abitato per tanto tempo, non c’era che qualche decina di persone. Assente ingiustificato e visibilissimo: il Comune di Bologna. Nemmeno un rappresentante istituzionale, una coroncina, un fiore. “Mi ha chiamato il sindaco Lepore per chiedermi scusa – spiega Avati a FQMagazine -Dice che c’è stato un disguido del cerimoniale. Che posso dire… bah… Gli ho chiesto: ma li hai redarguiti? E lui mi ha detto di sì e di stare tranquillo”. All’addio del grande attore bolognese c’erano la moglie, il figlio e davvero pochissimi intimi. “È successa la replica di quello che è accaduto a Carlo Delle Piane a Roma. La Chiesa degli Artisti era vuota, deserta, ci saranno state venti persone. Nessuno del cinema, anzi l’unico del cinema era Massimiliano Bruno. Persona che non conosco, ma mi hanno detto che c’era. Ieri a Bologna uguale: una trentina di persone dentro ad una chiesa enorme e vuota. Quando siamo arrivati davanti al Sacro Cuore con la macchina pensavamo addirittura di non trovare parcheggio. Al contrario ho chiamato i presenti per chiedere se avevamo sbagliato chiesa”.
Gianni Cavina era Bologna…
Al di là dei film girati con me, negli ultimi 40 anni Cavina è stato l’unico attore bolognese di fama nazionale. Gianni non aveva mai nascosto la sua bolognesità, quell’idea che c’era una volta e di cui andavamo orgogliosi e di cui ci compiacevamo.
Cavina interpretò oltre 40 film, decine di serie tv come L’Ispettore Sarti e Una grande famiglia, ma se non appartieni al giro di quelli buoni che se la cantano tra loro nessuno ti ricorda
Posso solo testimoniare che se la città non lo ha ricordato, i media al contrario l’hanno celebrato con calore inatteso.
Pupi, te lo richiedo: se a Bologna, e in Italia, non appartieni a un determinato partito continui a non esistere…
Guarda che questa è una cosa che abbiamo scelto. Non è una svista, tipo: cazzo mi sono dimenticato di iscrivermi al PD. Io ti giuro che dopo 57 anni non so per chi votava Cavina. La qualità del nostro rapporto era incentrata su un altro tipo di comunicazione. Mentre in altri contesti magari era primaria l’appartenenza a un partito, a un’ideologia, a un mondo, per noi non lo è mai stato. Anche per Delle Piane non ho mai saputo per chi votasse. Ci andava sempre però a votare, ma io non gliel’ho mai chiesto e lui non me l’ha mai detto.
Cos’è che dava e dà fastidio di te, Cavina, Delle Piane?
La cosa che non viene sopportata è la non appartenenza. La libertà di non essere collocato, etichettato, ricondotto a un certo contesto è imperdonabile. Mentre se tu dici di essere di sinistra o di destra susciti in qualche modo dignità e rispetto. Essere così distratti e astratti in questa società, e soprattutto in certi contesti così provinciali come a Bologna dove l’appartenenza è l’unico strumento che ti permette di affrancarti, porta all’indifferenza altrui. Ci sono persone che hanno fatto carriera solo perché bravi e fedeli in tutte le situazioni e hanno sempre detto sì.
Certo che negli anni settanta e ottanta si era creativamente davvero liberi…
Erano anni fantastici, uno poteva dire qualunque cosa. Più eri anacronistico nei riguardi della realtà che ti circondava, più eri fuori sincrono e venivi apprezzato e invidiato. Noi comunque siamo rimasti dei surrealisti, mentre la società di oggi è più conformista di cinquant’anni fa.
Avati e le istituzioni bolognesi: una lunga storia di dissapori e disinteresse, da parte loro…
C’è un episodio emblematico. Siamo tra il 1968 e il ’69. A quell’epoca c’era un numero di registi emiliano romagnoli oltre la media. Poi Bellocchio aveva girato e prodotto I pugni in tasca uscendo dalle regole del cinema di allora, da Roma, da Cinecittà, dalle major. Il Comune di Bologna organizzò un congresso sul “cinema decentrato”. Invitarono autori da tutta Italia e noi, gli unici ad aver fatto del cinema a Bologna da indipendente non siamo stati chiamati. Già allora, come vedi, c’era una… chiesa vuota.
Pupi, per ricordare Gianni cosa ti piacerebbe che facessero le istituzioni di Bologna e dell’Emilia-Romagna?
C’è una rassegna meravigliosa in piazza Maggiore d’estate. Dedichino una serata a Cavina. Quella era anche la sua piazza.