Mentre l'Agenzia Internazionale dell’Energia, in tempo di guerra, sottolinea la necessità di “produrre e consumare plastica in modo più sostenibile”, Greenpeace e ilfattoquotidiano.it danno il via a un'iniziativa comune, partendo dai numeri e da alcune domande: il riciclo è efficace? Quanto e chi guadagna dal rinvio della plastic tax? La grande distribuzione fa abbastanza? E noi, consumatori, facciamo scelte sostenibili? Ecco i temi del media brifieng che i Sostenitori hanno ricevuto in anteprima
Gli effetti della guerra in Ucraina cambiano la nostra quotidianità, i nostri bisogni, i nostri consumi. Mario Draghi ha persino parlato di possibili razionamenti per gas e altri beni di prima necessità. Se questo è il nuovo scenario, come si sta preparando il nostro Paese? Si parla di ritorno al carbone per far fronte alla possibile crisi energetica, ma nessuno finora ha mai pensato a una cosa molto semplice: eliminare gli sprechi. La plastica monouso, in tal senso, è lo spreco per eccellenza: nasce ed è concepita per diventare rifiuto, richiede grandi quantità di energie fossili per essere prodotta ed è la principale causa del disastro ambientale in atto. Possiamo ancora permettercelo? La domanda è retorica, la nostra risposta è un impegno: questa campagna, alla quale ti chiediamo di contribuire, punta a dimostrare l’inutilità dell’enorme consumo giornaliero di plastica in Italia. Ilfattoquotidiano.it unisce le forze con Greenpeace in una campagna congiunta, dal titolo evocativo: CARRELLI DI PLASTICA. Quanti imballaggi inutili utilizziamo? Ti chiederemo di partecipare attivamente, partendo dalla consapevolezza su quello che metti nel carrello. Ci rivolgeremo direttamente a chi decide le strategie e ai decisori politici. Per cambiare le cose. La nostra inchiesta con Greenpeace servirà a informarti su ciò che avviene negli altri Paesi, sulle direttive europee mai recepite. E soprattutto svelerà falsi miti e racconterà le buone pratiche.
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La plastica è ovunque, ma quello dei ‘carrelli della spesa’ è sempre un buon esercizio. Perché lì è in grado di accumularsi, in pochi minuti, sotto gli occhi dei consumatori e perché è proprio lì che i cittadini possono cambiare le cose. Una rivoluzione che non è mai stata così urgente: presentando il suo piano per tagliare la domanda di petrolio di 2,7 milioni di barili al giorno in soli quattro mesi ed essere meno dipendenti dalla Russia (in Italia a fine novembre il 10% delle importazioni di greggio arrivava da Mosca), la stessa Agenzia Internazionale dell’Energia ha sottolineato la necessità di “produrre e consumare plastica in modo più sostenibile”. D’altro canto, sempre secondo le previsioni dell’IEA, nei prossimi anni la crescita della domanda di petrolio nel settore petrolchimico sarà trainata per il 45 per cento proprio dalla fabbricazione di plastica. Un business che frutta all’industria petrolifera più di 400 miliardi di dollari l’anno. Cosa si può fare? Agire. E iniziare da un gesto semplice: osservare il contenuto del proprio carrello e cercare di riconoscere non solo la plastica visibile, quella degli imballaggi più ingombranti, ma anche quella invisibile. Nascosta nel cibo, sugli indumenti, nei trucchi. Un buon esercizio, appunto. Per questo ilfattoquotidiano.it e Greenpeace hanno deciso che il titolo della campagna che porteranno avanti insieme dovesse essere ‘Carrelli di plastica’. Una campagna che parte a poche settimane dall’approvazione, in Kenya, da parte dell’Assemblea delle Nazioni Unite per l’ambiente di una risoluzione storica che avvia i lavori per definire il testo, negoziare e approvare entro il 2024, un trattato globale sulla crisi globale legata alla plastica. Eppure nel testo “mancano alcuni elementi importanti, come un impegno per ridurre la produzione a partire dalla frazione monouso”. Lo denuncia Greenpeace in un briefing offerto ieri in anteprima ai sostenitori de ilfattoquoti
Il media briefing di Greenpeace: un’emergenza fuori controllo
Un trattato globale contro l’emergenza fuori controllo (anche dei prezzi) – Nel documento si affronta il tema della plastica per quello che è, ossia “un’emergenza fuori controllo” che si aggrava ad ogni step della filiera, dalla produzione al consumo, passando per il riciclo (quando c’è). Un percorso su cui incombono gli effetti di qualsiasi oscillazione nel sistema macro-economico e anche dell’attuale situazione geopolitica. Basti pensare alle conseguenze dell’esplosione dei prezzi dell’energia e dei carburanti sulla produzione di bottiglie di acqua minerale (che sta spingendo le aziende a chiedere un adeguamento dei prezzi al rialzo alla grande distribuzione) o sulle aziende del riciclo che, ora, invocano un intervento immediato della politica. Ecco perché dai ‘Carrelli di plastica’ dipende molto, più di quanto si possa immaginare. Perché dagli imballaggi dei detersivi alle bottiglie, dallo smalto a piatti e bicchieri, ancora oggi quasi tutta la plastica prodotta nel mondo deriva dai combustibili fossili. Significa che, se il ciclo di vita di questa mastodontica montagna di plastica fosse una nazione, sarebbe tra il quinto o il sesto emettitore mondiale di gas serra. Queste emissioni sono però destinate a crescere insieme ai volumi di plastica prodotti ogni anno che, si stima, ai ritmi attuali raddoppierebbero entro il 2030-2035 per triplicare nel 2050, raggiungendo oltre mille milioni di tonnellate. Basta questo (ma non è tutto) per comprendere la necessità di un trattato globale legalmente vincolante a cui da mesi lavora l’Unep.
La campagna ‘Carrelli di plastica’ – Ma dove finiscono i ‘Carrelli di plastica’? Sulle vette delle montagne, ai poli, negli abissi degli oceani, nell’aria, in centinaia di specie animali, nel corpo umano. Così, nelle prossime settimane, Greenpeace e ilfattoquotidiano.it accompagneranno i lettori in un viaggio che inizia con una serie di domande a cui si cercherà di dare una risposta. Quale plastica finisce nelle discariche del mondo? Il riciclo è davvero una soluzione efficace? Quanto e chi guadagna dal rinvio della plastic tax? Supermercati e multinazionali stanno davvero adottando misure che vanno nella direzione giusta? Saranno pubblicate notizie, studi e approfondimenti in esclusiva e realizzate dirette social con call to action che vedranno come protagonista la nostra community. E c’è un hashtag ufficiale per discutere sui social: #carrellidiplastica. Alcuni contenuti verranno offerti in anteprima ai Sostenitori a cui, come sempre, si chiede di contribuire a scrivere l’agenda, ponendo le questioni che ritengono prioritarie. L’obiettivo è sciogliere i dubbi, svelare falsi miti e fake news su tutto ciò che ruota intorno alla plastica e capire quale direzione stanno prendendo aziende e governi. Anche in Italia. A raccontare gli aspetti più insidiosi di un problema globale e nazionale, saranno le storie e gli esperti interpellati di volta in volta. Aiuteranno a capire cosa c’è dietro i dati, a leggere tra le righe dei dossier. Ma si cercherà anche di tirare le somme su promesse disattese e ritardi, per esempio nell’applicazione delle norme. Chi ci perde? Questa risposta può essere in parte anticipata: perdono i cittadini, su più fronti.
La prima tappa: gli impatti – La prima tappa è la pubblicazione del briefing di Greenpeace, nel quale si affrontano i diversi aspetti dell’emergenza. A iniziare dai limiti del riciclo e dai traffici di rifiuti verso Paesi che sono diventati le nuove discariche del pianeta, soprattutto in seguito al bando cinese all’import di rifiuti in plastica introdotto nel 2018. In quelle discariche finisce anche la plastica consumata in Italia. Come ricorda Greenpeace, secondo recenti stime “di tutta la plastica prodotta nella storia umana solo il 10% è stato correttamente riciclato, il 14% è stato bruciato e il restante 76% è finito in discariche o disperso nell’ambiente”. Su questo fronte anche l’appello lanciato nei giorni scorsi dall’Ocse nel Global Plastics Outlook (Prospettive globali sulla plastica). L’organismo internazionale per la cooperazione e lo sviluppo internazionale con sede a Parigi invoca una “risposta mondiale e coordinata” e spiega che sui 460 milioni di tonnellate di plastica prodotte nel 2019 nel mondo, la produzione di rifiuti si è stabilizzata a 353 milioni di tonnellate. E conferma: “Neppure il 10%, però, è stato riciclato”. C’è questo dietro gli impatti su clima e biodiversità, raccontati in modo approfondito nel briefing. Sono più di settecento, per esempio, le specie animali su cui la plastica ha un impatto. Perché ne diventa trappola o cibo. Non ci sono solo cetacei o tartarughe marine, ma anche centinaia di specie di pesci che finiscono sulle tavole di tutti. Alle materie plastiche, tra l’altro, sono associate circa diecimila additivi chimici, alcuni estremamente pericolosi anche per la salute umana. Greenpeace ricorda anche uno studio del 2020 pubblicato su Science, nel quale sono stati esaminati differenti scenari e arrivato alla conclusione che, senza un piano di riduzione nella produzione e nel consumo, la quantità di plastica che finisce negli oceani passerebbe dagli attuali 11 milioni di tonnellate all’anno ai 29 milioni previsti per il 2040. Allo stesso tempo, considerando il trend di crescita della produzione “gli impegni volontari delle aziende e le politiche messe in atto dai singoli Stati potrebbero ridurre solo del 7% la quantità di materie plastiche che viene dispersa nell’ambiente ogni anno”.
Da aziende e governi azioni insufficienti: il focus di confronto tra Italia e altri Paesi europei – Nonostante questo, ancora oggi, le azioni di aziende e governi sono insufficienti, come si spiega nel documento. Basti pensare all’odissea, in Europa, non solo della plastic tax ma anche della stessa direttiva sul monouso, non ancora recepita (o recepita in modo non corretto) in diversi Paesi. Eppure le politiche dovrebbero concentrarsi sulla riduzione a monte della produzione, proprio a partire dalla frazione monouso, quella che oggi rappresenta circa il 36% della produzione globale. Al briefing seguirà nelle prossime ore un focus nel quale si confrontano le azioni più incisive, anche le più recenti, messe in campo dai diversi Paesi europei con quelle intraprese in Italia. Si tratta di un panorama di fatto non omogeneo e lontano da quello che dovrebbe imporre la situazione. D’altronde questa è un’emergenza della quale non si riescono neppure a definire bene i contorni. Perché se livelli di anidride carbonica e temperatura media globale sono i parametri di riferimento per tenere a bada (o almeno provarci) il riscaldamento globale, non ci sono parametri altrettanto chiari per definire il punto di non ritorno di un ‘pianeta invaso dalla plastica’. Si può, però, iniziare a riprendere il controllo. Si può iniziare con un trattato globale vincolante.
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