di Maurizio Donini

Con il 31 marzo finisce lo stato di emergenza e, tra le altre misure pandemiche in scadenza, finirà lo smart-working in modalità semplificata. Questo strumento ha avuto un grande successo, al di là dei pregi e difetti che ha comportato dal punto di vista economico, dando nuove possibilità alle famiglie di gestire i propri spazi. Ma è tutto oro quello che luccica?

Per gli uomini i vantaggi sono stati evidenti, per le donne si è trattato, al di là dei benefici, di vedere allargarsi in modo sensibile il gender gap (differenza di trattamento). Dallo studio pubblicato da Axa Research Lab on Gender Quality presso l’Università Bocconi si desume che durante il periodo pandemico il 40% degli uomini ha visto aumentare le proprie incombenze domestiche, ma questo è stato carico anche per il 65% delle donne, ampliando ulteriormente la forbice. Sono state le donne a prendersi in carico la dad per i figli e le incombenze per i genitori anziani, passando da 2,52 ore al giorno di impegno domestico pre-pandemia, a tre ore. Contemporaneamente gli uomini sono passati da 1,26 a 1,57 ore.

Contrariamente alla crisi economica del 2009 che aveva inciso meno sui servizi, categoria solitamente molto a base femminile, la crisi economica dovuta alla pandemia ha colpito proprio il settore terziario andando a incidere in maniera pesante proprio sul versante dell’occupazione femminile. 268 sono gli anni reputati necessari per arrivare alla parità fra uomini e donne rispetto le prospettive economiche e di carriera – secondo quanto esposto dalla prof.ssa Azzurra Rinaldi, Direttrice della School of Gender Economics all’Università Unitelma Sapienza di Roma, durante il webinar di Euractiv Italia e Parlamento Europeo dedicato al Next Generation Eu e all’impegno dell’Europa per le pari opportunità.

La nota maggiore sensibilità verso la figura femminile nel mondo del lavoro delle società si riflette nella classifica finale del gender gap alla base del World Economic Forum, che vede svettare i paesi nordici con l’Islanda al primo posto, seguita da Finlandia, Norvegia, Nuova Zelanda e Svezia. A sorpresa abbiamo la Namibia sesta e il Ruanda al settimo, l’Italia, pure in crescita, nel 2021 si ferma a un non memorabile 62esimo posto su 156 paesi analizzati. L’Italia si piazza al 114esimo posto se si prende in esame la sola partecipazione economica, un risultato che pone il nostro paese sull’ultimo gradino in Europa.

Partendo dall’Advisory Board di WE – Women’s Equality Festival, manifestazione nazionale sulla parità di genere in Italia tenutasi a Lecce nell’ottobre 2021, sono nate iniziative concentrate nel supporto all’imprenditoria femminile, soprattutto nel sud Italia: introduzione di policy sulla genitorialità, sviluppo di canali di comunicazione diretta con le forze dell’ordine per la segnalazione di violenza di genere domestica e sui luoghi di lavoro. La formazione risulta essere il parametro più importante, unitamente al sostegno del lavoro e dell’indipendenza economica delle donne e il contrasto alla violenza di genere nelle organizzazioni. Tra gli altri fattori critici di successo nell’operazione di inclusione, l’indagine svolta ha posto il focus sullo sviluppo del networking per aumentare il coinvolgimento delle parti: risulta quindi importante il sostegno del top management e l’adesione alle iniziative volte a superare il gender gap.

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