Nei suoi scritti politici, Albert Camus sosteneva che il secolo ventesimo si potesse definire il “secolo della paura” (preceduto da quelli della biologia, delle scienze fisiche e della matematica). Per il modo in cui si stanno svolgendo le cose, potremmo dire che quello ormai chiuso, lungi dal potersi definire un “secolo breve” – secondo la celebre definizione di Hobsbawn -, potrebbe persino rischiare di riproporsi, come un “secolo ripetuto”. Come accade per gli esami insufficienti. In nuova forma, si stanno riproponendo schemi e contrapposizioni in parte già visti; sembra che le voci autorevoli di autori che hanno attraversato i passaggi cruciali della Seconda Guerra Mondiale, della Resistenza e della Guerra Fredda – con lo spettro di un’Apocalisse atomica – siano cadute come lettera morta in una soffitta della memoria.
La paura toglie senso alla vita, nega la progettualità, esattamente come l’instabilità lavorativa a cui sono relegati milioni di lavoratori precari. A questo ancora non fa da riscontro una rielaborazione politica di senso compiuto, con partiti e corpi intermedi stretti tra difesa dei diritti già acquisiti e coraggio dell’estensione a nuove fasce di lavoratori. Sul fatto che la maggior parte degli esseri umani vivesse senza un futuro, Camus scriveva che “senza una proiezione sul futuro, senza una promessa di maturazione e progresso, non esiste una vita che abbia valore. Vivere contro un muro, è una vita da cani”. Come osserva Emanuele Felice in ambito economico, ne La conquista dei diritti, dagli anni Novanta del ‘900, i partiti della socialdemocrazia non hanno saputo arginare la diffusione di un’economia di mercato di stampo neoliberista, perdendo fiato rispetto agli interessi del capitale.
D’altro canto, la guerra, ovunque si svolga il suo furibondo teatro, è un’esplosione orribile ed esecranda di disumanità. Non esiste acrobazia dialettica idonea a giustificarla, che non lasci il sangue delle madri e dei bambini sulle mani di chi ci si cimenti. Oggi più che mai, le parole di Camus si fanno attuali: “il mondo ci appare sospinto da forze cieche e sorde che non intenderanno le grida di avvertimento, i consigli, le suppliche”. L’accelerazione verso un conflitto dalle sorti in ogni caso disastrose lascia intendere che siano ancora valide le profezie secondo cui l’imperialismo sia la “fase suprema del capitalismo”, come scriveva Lenin circa un secolo fa. Il conflitto armato, secondo il rivoluzionario russo, sarebbe lo sbocco conclusivo e inevitabile della competizione tra potenze capitaliste.
Le malcelate censure in corso in questi giorni, verso intellettuali accusati di fare da sponda alle follie imperialiste in corso, ricordano le accuse rivolte a Camus sul finire dei terribili anni Quaranta, quando gli veniva detto: “Non dovete parlare dell’epurazione degli artisti in Russia, perché questo favorirebbe la reazione”. “Non dovete far parola del fatto che Franco è tenuto al potere dagli anglo-americani, perché questo avvantaggerebbe il comunismo”. Questo accade quando persino l’informazione si lascia polarizzare in un ruolo di propaganda, di grancassa del potere, che a sua volta maneggia la paura come tecnica di manipolazione e di controllo. Cito ancora Camus: “Soffochiamo in mezzo a coloro che sono convinti di avere assolutamente ragione, tanto nelle loro macchine quanto nelle loro idee”.
La mancata adesione ai totalitarismi, che tante antipatie attirò a Camus, derivava da una sua fondamentale obiezione di coscienza: “Le persone come me vorrebbero un mondo non dove non si ammazzasse più (non siamo così sciocchi!), ma dove l’omicidio non fosse legittimato”. Qui si alza la voce dell’intellettuale franco-algerino, insignito del Nobel per la letteratura nel 1956 e parla a qualunque intellettuale voglia indulgere verso scelte interventiste, in questo come in altri conflitti (ce ne sono decine, in corso, anche se i media non ne parlano affatto). Nessun commento richiedono le parole che seguono: “Tutti quanti, con la sola eccezione di qualche cialtrone di destra e di sinistra, ritengono che la propria verità sia adatta a fare la felicità degli uomini. Poi, invece, la congiunzione di tante buone volontà produce questo mondo infernale nel quale gli uomini sono ancora ammazzati, minacciati, deportati, nel quale si prepara la guerra ed è impossibile dire una sola parola senza essere immediatamente insultati o traditi”.
Il rifiuto a legittimare l’omicidio come strada che conduca alla libertà è il confine di separazione fondamentale. Per dirla con Camus, non ci sarà forse mai un mondo senza omicidio (per legittima difesa, aggressione o altro movente), ma non deve esserci al mondo un solo omicidio con la motivazione offerta da chiunque, come un’arma fumante. Sono due cose ben distinte. Non la condanna dell’arma in sé ma quella dell’inopinata legittimazione intellettuale del suo uso, in una guerra ritenuta “giusta”.
Allo stesso modo, Camus notava che le “utopie assolute” si sarebbero autodistrutte nella storia a causa del prezzo che finiscono per far pagare: l’omicidio, tra le altri voci. Quando Camus scriveva queste parole, erano ancora dolenti le memorie dell’Olocausto e del conflitto mondiale e l’Unione Sovietica era governata da Stalin. Camus intravedeva il rischio di un conflitto atomico tra le due grandi superpotenze del tempo: Usa e Urss. Definiva senza mezzi termini tale eventualità un cataclisma che sarebbe costato fino a dieci volte rispetto al bilancio della Seconda guerra mondiale (oltre cinquanta milioni di morti).
In cosa risiede l’attualità del pensiero di Camus? Nel prevedere che nel mondo “non esistono più isole e che le frontiere sono inutili”. Camus aveva intuito, come altri geniali intellettuali del proprio tempo, che soltanto facendo confluire le nazioni in un organismo sovranazionale si sarebbe posto fine al rischio della riproposizione di schemi conflittuali già visti. “L’unico modo per uscirne consiste nel mettere la legge internazionale al di sopra dei governi, dunque di fare questa legge, dunque di disporre di un parlamento, dunque di costituire questo parlamento mediante elezioni mondiali alle quali parteciperanno tutti i popoli”. Togliere peso alla politica interna per affrontare problemi globali con una visione d’insieme e su scala globale. In temi come difesa, energia, superamento dei divari territoriali. È la direzione che deve prendere, senza por tempo in mezzo, il percorso di integrazione europea. Nella dimensione sovranazionale troveranno risposta le questioni ancora aperte, lasciate inevase dai partiti che dovrebbero occuparsi di precariato, nuovi poveri, estensione dei diritti, integrazione, inclusione.
Invece, siamo nel 2022 e il linguaggio mediatico sciorina ancora termini intrisi di retorica stantia, patriottismi obsoleti, parole sulle labbra di sedicenti pacifisti con l’elmetto già calcato sulla testa. Qualcuno scopre oggi che le nostre società tuttora presentano forme di esclusione, iniqua selezione all’ingresso, marginalizzazione delle voci scomode. Questi tempi lo stanno dimostrando ogni volta che persino in ambienti intellettuali si preferisce la censura al coraggio di prese di posizione scomoda, negando alla base il proprio ruolo. In troppi casi, si preferisce conservare meschini privilegi al dovere di pagare il prezzo di una coerente presa di posizione. Per Camus, libertà e giustizia sociale avrebbero fatto rima con Europa, attraverso difficili ma pacifici compromessi.
“Ci chiedono di amare o di odiare questo paese o quello, questo popolo o quello. Ma noi siamo persone che sentono troppo bene la propria affinità con tutti gli uomini per accettare una scelta del genere”. Quanto dicono, simili parole, alle nostre coscienze? Abbiamo accolto con riserve o con entusiasmo – a seconda dei casi – la globalizzazione dei mercati ma dobbiamo esser pronti alla globalizzazione dell’umanità e dei diritti. Su questo, le nostre società difettano ancora tanto, pur essendosi evolute in misura significativa, nel corso degli ultimi secoli. A questo bisogna trovare nuove risposte, con coraggio, determinazione e urgenza. All’interno delle nostre società si accettano status quo di discriminazione su base territoriale e avidità localistica nella distribuzione delle risorse. La cosa si fa persino imbarazzante su scala planetaria. Non esistono guerre e campi di concentramento di segno positivo e di segno negativo. La libertà è un grido seguito da una lunga pena, avrebbe scritto Camus. Non ci sono conforti, non ci sono alibi. Bisogna cambiare passo.
Gli scritti politici di Albert Camus sono raccolti in Mi rivolto dunque siamo edito da Elèuthera, a cura di Vittorio Giacopini.