I continui richiami a una “nuova guerra fredda”, il ritorno di un discorso che sembra voler contrapporre due distinti blocchi di civiltà e rievocare atmosfere novecentesche. Quanto di tutto questo ha una valenza politica o strategica? E quanto è però fuorviante per cercare di capire davvero quali sono e come si stanno trasformando i nuovi equilibri internazionali, economicamente, politicamente e ideologicamente molto lontani da quelli del periodo della guerra fredda, a sua volta più articolato di quanto si pensi? A rispondere a ilfattoquotidiano.it è Federico Romero, docente dell’Istituto universitario europeo, con all’attivo moltissime pubblicazioni, tra cui spicca Storia della Guerra fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa (Einaudi, 2009). Dal 2015 dirige il progetto dell’European Research Council “Looking West: the European Socialist regimes facing pan-European cooperation and the European Community”.
Professor Romero, nei discorsi di Zelensky ai parlamenti sono emersi molti riferimenti a cavallo tra seconda guerra mondiale e guerra fredda, con citazioni dei leader del passato. C’è, ed eventualmente qual è, il punto strategico di questa narrazione?
Non credo che ci sia uno scopo strategico nel senso pieno del termine. Piuttosto, credo che si tratti di una volontà di usare bene ed efficacemente la retorica per raccogliere consenso, usando le immagini più evocative a seconda dell’audience di riferimento, per drammatizzare, commuovere, coinvolgere. Si tratta, a mio modo di vedere, di un modo di operare più politico che strategico: il punto discorsivo e politico è quello di inserire l’Ucraina nella famiglia delle democrazie occidentali. Zelensky cerca così di sancire l’appartenenza ucraina all’universo simbolico e culturale dell’Europa e più in generale dell’occidente. Questo viene fatto a maggiore ragione adesso: l’Ucraina non può entrare nella Nato, ma questo non significa che non ci siano ancora aperture per un entrata nell’Unione Europea, anzi. L’apparente appiattimento che a volte si fa tra appartenenza all’Unione europea e alla Nato è storicamente legato alla costruzione di un ideale di Occidente democratico con le sue infrastrutture condivise. Tuttavia, si tratta di realtà diverse, occorre tenere presente che ci sono paesi neutrali in Ue. Inoltre, questa tendenza all’appiattimento emerge fortemente anche a seconda dei momenti specifici: le differenze tra Ue e Nato ritornano sempre non appena un’emergenza di carattere bellico o di sicurezza recede un po’. Per Zelensky è dunque importante coltivare il terreno del simbolico, far crescere un vocabolario di identificazione comune che è anche risorsa politica, sia per un futuro percorso di entrata nell’Ue; sia per avere più risorse nella gestione dei flussi di rifugiati, o in proiezione di futuri negoziati di pace.
A partire dalle proteste di Maidan del 2014, l’annessione russa della Crimea e il sostegno alle rivolte del Donbass, hanno portato a un radicale allontanamento ucraino dall’idea di un’integrazione nel progetto russo di unione economica e politica e a un maggiore avvicinamento al sistema euroatlantico. La Russia ha reagito rafforzando la sua narrazione anti-occidentale e alimentando discorsi ambigui sugli accordi di Minsk fino all’invasione del 24 febbraio. L’escalation e l’Ucraina sono solo un pretesto strategico di una realpolitik russa volta a capire quanto ci si possa spingere e quanto l’Occidente sia disposto a fare?
Ho pensato a lungo che ci fosse una strategia. Credevo che, con questo dispiegamento di forze armate, si volesse costruire una forma di ricatto diplomatico all’Ucraina e indirettamente all’occidente, per ottenere un tavolo negoziale su alcuni nodi come il formale riconoscimento delle Repubbliche separatiste del Donbass, di Donetsk e Lugansk; l’esclusione di qualsiasi trattativa relativa all’entrata dell’Ucraina nella Nato; la definizione concorde di una linea geopolitica di equilibrio di poteri oltre cui non far spingere l’Occidente. Tuttavia, semmai fosse stata questa la strategia, con l’invasione sarebbe saltato tutto. A partire dall’invasione mi riesce in effetti difficile vedere una strategia. Infatti, se il ragionamento strategico si sposta sulla conquista di una parte o di tutta l’Ucraina, qualcosa non torna: da un lato le operazioni militari sarebbero state organizzate meglio; dall’altro la Russia ha materialmente più da perdere che da guadagnare dall’approfondimento di queste conflittualità. Tendo a credere che, come spesso accade nella storia, il ragionamento strategico sia stato soverchiato dagli eventi. Si è scesi in campo enfatizzando il risentimento nazionale e la convinzione di una crescente minaccia occidentale, forse anche con l’idea, strategica, che questo sarebbe servito per consolidare il potere interno e per aumentare gli spazi di alleanza con la Cina. Spesso però si va al di là delle strategie e si finisce per identificarsi con ciò che si dice, con la propaganda. Sono confini sfumati.
Il diplomatico americano George Frost Kennan, figura chiave della guerra fredda e e ideatore della “politica del contenimento” dell’espansionismo sovietico, scrisse nel 1997 sul New York Times che, tra le altre cose, “l’espansione della Nato” sarebbe “l’errore più fatale” della politica Usa avvertendo che avrebbe potuto spingere “la politica estera russa in direzioni decisamente non di nostro gradimento”. Che ruolo ha avuto tale espansione nel tracciare le premesse di questo conflitto?
Secondo me è un discorso per certi aspetti molto complesso ma pure semplice. Nel 1989 la Nato si fermava in Germania. Gradualmente si è espansa verso Paesi baltici, Slovacchia, Polonia, sempre più vicino alla Russia e senz’altro questi passaggi hanno influito sulla ripresa di un forte nazionalismo russo che ha chiaramente un evidente ruolo anche nel conflitto odierno, anche se non possiamo sapere quanto pesi nella testa di Putin. Sappiamo però che, nell’orientare la discussione sull’espansionismo Nato, diversi analisti negli anni Novanta – anche fortemente conservatori – erano contrati all’espansione della Nato. Ragionando però a posteriori non saprei dire quanto sia stato un errore diplomatico o meno, perché vanno tenuti in mente anche gli scenari. Era inimmaginabile una fantasiosa alternativa di ridefinizione comune di un nuovo equilibrio condiviso tra occidente ed ex mondo sovietico, perché comunque l’occidente aveva vinto. Nel frattempo, i paesi dell’Europa dell’est bussavano all’occidente ed erano aree con regimi politici appena nati, instabili, esposti a conflitti etnici e religiosi. Premeva l’urgenza di stabilizzazione ai propri confini e prevalse questa opzione, anche se era realistico immaginare una cattiva reazione. Si sarebbe forse potuto combinare l’espansione con una politica estremamente positiva e propositiva verso la Russia. Ciò avrebbe voluto dire fornire un enorme aiuto economico che ne evitasse lo shock post-sovietico. Al contempo questo avrebbe implicato un esborso soldi enormi ed era impensabile, anche perché era proprio il momento in cui si iniziava a credere e raccontare che libero mercato e libera concorrenza avessero il potere di sistemare tutto. È una matassa di ipotesi, difficile dire cosa si sarebbe potuto fare o non, cosa sarebbe dovuto essere fatto o non.
Ha senso oggi parlare in termini di “nuova guerra fredda”, o è una semplificazione evocativa che non ci permette di leggere dentro le trasformazioni storiche?
Credo che l’analogia con la guerra fredda non serva a molto. La prima differenza cruciale sta nel fatto che Usa e Unione sovietica pensavano di avere ciascuno una sua ricetta per il progresso del mondo, capitalistico o socialista. Su queste ricette si giocavano gli equilibri del mondo e l’aspetto ideologico era molto forte. Adesso il quadro è molto diverso, non ci sono visioni di progresso antitetiche, idee di espansione di modelli universalistici. Adesso è un conflitto di potere tra potenze e l’elemento ideale è ben più sfocato. Questo si nota anche nei discorsi occidentali che contrappongono alla democrazia un non ben definito fronte autocratico. Tuttavia, tutto si sfuma se si pensa, ad esempio, alla Cina. Usa, Gran Bretagna e Australia sono favorevoli a identificare Pechino e Mosca in un unico blocco autocratico cui contrapporsi, ma lo stesso non vale per Italia, Francia, Germania. Questo è un punto che potrebbe essere baricentro per il futuro occidentale a livello strategico.