Quasi un morto al giorno. Dall’inizio dell’anno sono stati 81 i decessi tra le persone senza fissa dimora. Tra il 2020 e il 2021 erano stati in tutto 454 (246 nel 2021 e 208 nel 2020). “Una strage silenziosa” la definisce la Federazione italiana organismi per le persone senza dimora che alcune settimane fa ha pubblicato un rapporto per fotografare la situazione italiana. “Il dato più pesante è che i senza dimora muoiono tutto l’anno, non solo d’inverno a causa del freddo” spiega Alessandro Pezzoni, il vice presidente. L’andamento trimestrale dei decessi mostra che le morti sono distribuite in tutti i mesi dell’anno, con un aumento nel periodo freddo. Nel 2021, 79 persone sono decedute d’inverno, 53 in primavera, 53 in estate e 60 in autunno. “Non ha più senso parlare di ‘emergenza o piani freddo’ ma servirebbero piani strutturali per affrontare questo tema” prosegue Pezzoni ricordando che il il 60% dei decessi è a causa di incidenti, violenze e suicidi mentre il 40% per motivi di salute. L’integrazione nel sistema socio sanitario delle persone senza dimora è uno degli assi principali del lavoro svolto quotidianamente dalle associazioni.
“Il nostro è un lavoro di mediazione e di costruzione di relazioni individuali” spiega Stefano D’Aloia, uno degli educatori di strada della cooperativa Farsi Prossimo. Durante il giorno insieme ai suoi colleghi presidia alcuni dei parchi milanesi dove si concentrano i senza dimora. Seduto su una panchina aiuta a compilare il Cud di Onofrio, trent’anni, da due in strada. “Milano è una città cara – racconta l’uomo – c’è chi lavora per 700 euro al mese e non può pagare 500 per un posto letto. Così va a vivere in strada e la mattina va a lavorare”. Lui lo ha fatto per dieci mesi vivendo in una palazzina abbandonata da solo. “I miei colleghi non pensavano che vivessi per strada. I pericoli sono tanti, si dorme sempre con un occhio mezzo aperto”. L’età media delle persone decedute negli ultimi due anni è 49 anni. Ma se si restringe il campo ai decessi degli stranieri si nota che 8 su 10 avevano meno di 30 anni. “Un dato preoccupante perché ci mostra il fallimento del sistema di accoglienza – spiega Pezzoni – una volta usciti dai circuiti di accoglienza i ragazzi non scompaiono ma rimangono nelle nostre città, diventando vittime di violenze o soffrendo a causa di dipendenze e disturbi mentali. Ed è diventato sempre più difficile intercettare queste fragilità perché i servizi psichiatrici escono molto poco per strada”. L’appello della federazione alle istituzioni locali e nazionali è quello di cambiare il paradigma virando su modelli di “housing first”. “Oggi avere una casa rappresenta la base sicura per poter vivere e partecipare attivamente alla vita sociale di una comunità – conclude la presidente Cristina Avonto – non averla significa compromettere buona parte dei diritti di cittadinanza e di integrazione. Serve un sistema organico di intervento che interrompa una così silenziosa strage”