C’è una parola che ha infiniti sinonimi. Solo che vengono utilizzati tutti con una feroce carica spregiativa. Josh Cavallo se le sente rovesciare addosso ogni giorno. Da almeno sei mesi. Perché lo scorso 27 ottobre il ventiduenne dell’Adelaide United è diventato il primo calciatore a fare coming out e a dichiararsi pubblicamente omosessuale. Un atto che sembrava poter cambiare la storia di un movimento dove il machismo è ancora un totem intorno al quale danzare. Le cose, però, sono andate in maniera leggermente diversa. Perché dopo il consenso planetario, sono arrivati gli insulti e gli abusi verbali. E anche qualche minaccia di morte. Sui suoi profili social Cavallo si è visto recapitare messaggi come: “Frocio”, “Maricon”, “Finocchio”, “Fai schifo”.
I più verbosi hanno addirittura provato a esplicitare meglio il loro pensiero: “Ragazzo, tu hai solo bisogno di Gesù”, “Dio dovrebbe bruciare questo mondo, sembra che il Diavolo sia a piede libero”, “Ti rispetto amico, ma spero davvero che tu possa cambiare”, “Non capisco perché questo coming out dovrebbe essere una notizia. Perché non continuiamo a parlare del Covid?”, “Di preciso, per chi dovresti essere una fonte di ispirazione?”. Il punto più basso è stato toccato lo scorso 9 gennaio, quando durante il match fra Adelaide United e Melbourne Victory Josh è stato vittima di insulti e cori omofobi. “Non farò finta di non aver visto o sentito gli abusi omofobi durante la partita di ieri sera – ha scritto Cavallo su Instagram – non ci sono parole per dirvi quanto sono rimasto deluso”.
E ancora: “Questo non dovrebbe essere accettabile e dobbiamo fare di più per ritenere questa gente responsabile. L’odio non vincerà mai. Non mi scuserò mai per vivere la mia verità e per chi sono al di fuori del calcio”. Il concetto più interessante, tuttavia, è un altro. Perché il calciatore ha chiamato direttamente in causa i social network: “È una triste realtà che le vostre piattaforme non stanno facendo abbastanza per fermare questi messaggi”. Un’idea che ha fatto discutere. E anche parecchio. Negli ultimi mesi la A-League ha dovuto fare i conti con una situazione esplosiva. Anche Kusini Yengi, attaccante dell’Adelaide United, e Bernie Ibini-Isei, punta del Western Sydney Wanderers, sono stati presi di mira dai “tifosi”. Le barriere sono cadute. La differenza fra campo e vita privata non esiste più. I giocatori si portano sempre in tasca il bar sport, ascoltano i cori degli avversari anche in salotto. Con la conseguenza di familiarizzare con il concetto di ansia.
La risposta ideata dal sindacato calciatori e dalla Lega australiana è piuttosto particolare. Tutti gli account social dei calciatori della A-League Man e della A-League Women saranno monitorati costantemente da un software di intelligenza artificiale che funzionerà come una rete di filtraggio: i commenti razzisti, omofobi, sessisti saranno bloccati e non saranno visibili al calciatore e ai suoi follower. L’idea è chiara. Per diminuire i commenti “inopportuni” è necessario spogliargli della loro visibilità, impedire che riescano a formare quell’effetto branco che genera emulazione. Così verranno direttamente censurati. È un’iniziativa che fa riflettere. Perché si porta dietro una considerazione amara: lì dove non arriva l’intelligenza umana deve intervenire l’intelligenza artificiale. Con tutti i dubbi che ne conseguono. La differenza fra dissenso e abuso viene stabilita da un algoritmo, l’educazione viene impartita tramite una stringa di comando.
“L’A-League sta cercando di utilizzare questa tecnologia con tutti i club e ora speriamo di vedere questo approccio replicato dai vertici dello sport in tutto il mondo – ha detto Henry Platte, il fondatore di GoBubble, la società britannica che ha messo a punto l’algoritmo – Questo potente passo in avanti proteggerà le squadre, i giocatori e le comunità dagli abusi online, e promuoverà un’esperienza virtuale positiva e solidale attraverso i loro canali social”. Una decisione rivoluzionaria. Che racconta alla perfezione quanto ancora sia lungo il cammino verso un’educazione civica del tifo.