La vicenda di Saman Abbas ha scosso tutti noi e ha aperto molti interrogativi sulla questione della tutela delle donne che sono costrette o indotte ai matrimoni forzati.
Saman, diciotto anni, di origine pakistana, residente da anni a Novellara in provincia di Reggio Emilia, è scomparsa dal 1° maggio 2021 e gli inquirenti, che stanno indagando per omicidio e per occultamento di cadavere, sospettano che sia stata la famiglia a ucciderla e a farla scomparire. La ragazza sarebbe stata uccisa perché si era ribellata a un matrimonio combinato e perché avrebbe voluto vivere “all’occidentale”. Saman raccontò, infatti, che i genitori avevano comprato per lei un biglietto aereo per il Pakistan perché avrebbe dovuto sposare un ragazzo di undici anni più vecchio e da lei non voluto, dal momento che si era fidanzata con un connazionale in Italia. I genitori di lei non gradiscono la relazione, la picchiano e il padre arriva a minacciare di morte nel Paese natale la famiglia di lui. Alla mezzanotte del 30 aprile, come nel più brutto degli incantesimi, la ragazza sparisce.
Saman ha fatto tutto quello che lo Stato chiede di fare in caso di violenza. Ha avuto il coraggio di opporsi ad un matrimonio forzato, ha denunciato la costrizione imposta dalla famiglia, era stata accolta in una casa rifugio entrando così in una rete di protezione. È qui, purtroppo, che è scattato un cortocircuito, perché Saman non aveva con sé i documenti, in particolare il permesso di soggiorno, e per questo motivo è stata costretta a tornare a casa per riprenderlo, con l’epilogo a tutti noto.
Di lei non si sa più nulla ormai da un anno. In certi contesti familiari patriarcali, retrogradi e sessisti i documenti, soprattutto se si tratta di figlie femmine, vengono trattenuti, o meglio dire sequestrati, dai genitori. Non avere i documenti è un doppio colpo per queste donne: da una parte si sentono abbandonate dallo Stato in cui vivono e dall’altra hanno il timore di essere rimandate nel loro Paese, ritrovandosi così sottomesse e senza via di fuga.
La proposta di legge, a mia prima firma, approvata ieri alla Camera, nasce dalla necessità di colmare proprio questa lacuna legislativa attraverso l’inserimento del reato di matrimonio forzato di cui all’articolo 558-bis del codice penale all’interno del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e, in particolare, nell’articolo 18-bis, introdotto proprio per contrastare la violenza contro le donne. Facendo così includiamo il reato di matrimonio forzato nell’elenco dei reati che prevedono il rilascio allo straniero del permesso di soggiorno per le vittime di violenza domestica, di cui all’articolo 18-bis del testo unico immigrazione citato.
La vittima che denuncia la costrizione o induzione al matrimonio avrà diritto così al rilascio immediato del permesso di soggiorno, svincolandosi dalla famiglia di origine per essere da subito indipendente con i documenti. L’intervento comporterà, inoltre, che – come disposto dal comma 4-bis dello stesso articolo 18-bis nei confronti di soggetti condannati per aver commesso il reato di matrimonio forzato – possa essere adottata quale ulteriore misura sanzionatoria quella della revoca del permesso di soggiorno e dell’espulsione.
Il grave fenomeno dei matrimoni forzati era già stato preso in esame dal legislatore con la Legge Codice Rosso, di cui sono stata relatrice, in quanto aveva introdotto il reato di costrizione o induzione al matrimonio, di cui all’art. 558 bis c.p., che punisce con la reclusione da uno a cinque anni chiunque con violenza o minaccia costringa una persona a contrarre matrimonio o unione civile. La disposizione penale stabilisce che il reato è punito anche quando il fatto è commesso all’estero da cittadino italiano o da straniero residente in Italia. La pena è aumentata se ad essere costretto al matrimonio è un minore di diciotto anni, e sale da due a sette anni di reclusione se i fatti sono commessi in danno ad un minore di quattordici anni.
Tale realtà riguarda da vicino il nostro Paese. Secondo l’ultimo rapporto sul fenomeno dei matrimoni forzati in Italia, curato dal ministero dell’Interno, dal 9 agosto 2019, data dell’entrata in vigore della legge 69/2019 cosiddetta Codice rosso che ha introdotto il nuovo reato, fino al 31 dicembre 2021 si sono registrati 35 casi di reati di costrizione o induzione al matrimonio: 7 casi nel 2019 (a partire dal 9 agosto), 8 nel 2020 e ben 20 nel 2021. La maggior parte delle vittime, pari all’85%, è di genere femminile. L’analisi per fasce d’età, sul numero totale delle vittime, mostra che un terzo di esse non raggiunge la maggiore età; in particolare il 6% è infra quattordicenne, il 27% invece ha tra i 14 e i 17 anni. Tra le vittime maggiorenni, quelle fra i 18 e i 24 anni risultano nettamente superiori (43%). Le vittime straniere risultano prevalenti (il 64% del totale delle vittime); le più numerose sono le pakistane (57%), seguite da quelle albanesi (10%); le altre nazionalità rappresentate sono India, Bangladesh, Sri Lanka, Croazia, Polonia, Romania e Nigeria.
Nel 2020, per effetto delle conseguenze economiche della pandemia, per la prima volta, dopo anni di progressi, si è registrato un peggioramento dell’incidenza dei matrimoni forzati che stanno coinvolgendo molte adolescenti, soprattutto nell’Asia meridionale, nell’Africa centrale e nell’America latina. Nelle stesse aree si concentra prevalentemente anche il fenomeno delle gravidanze precoci (Rapporto “The Global Girlhood Report 2020” dell’organizzazione Save the Children, presentato in occasione del 25esimo anniversario della Conferenza sulle donne di Pechino del 1995).
I dati, inevitabilmente, fotografano una situazione sottodimensionata rispetto a quella reale, se si pensa che la costrizione avviene, nella maggior parte dei casi, all’interno del contesto familiare dove denunciare è più difficile per paura di ritorsioni.
Il fenomeno dei matrimoni forzati, che vede principalmente quali vittime donne e straniere, secondo il report “La condizione delle bambine e delle ragazze nel mondo 2020” dell’organizzazione Terre des Hommes, rappresenta spesso in situazioni di povertà, insicurezza su futuro e lavoro e paura, una scelta vantaggiosa o forse l’unica per le ragazze e/o un modo per i genitori di mitigare le difficoltà economiche della famiglia.
La cultura dei matrimoni forzati fa parte di quelle tradizioni arcaiche e patriarcali che non ci appartengono e che un Paese civile non può e non deve accettare. Non abbiamo potuto salvare Saman, ma abbiamo il dovere di tutelare tutte le donne che coraggiosamente si ribellano e denunciano situazioni di costrizione e di pericolo. Uno Stato civile non le abbandona, non le lascia sole ma le affianca, porgendo la mano, per offrire loro una via di fuga e un’alternativa alla violenza. Questo significa salvare la loro libertà, il loro diritto di scegliere e, molto spesso, la loro vita. Mi auguro che l’iter della proposta di legge proceda ora senza alcun intoppo anche al Senato, per dare al Paese una norma di civiltà a tutela della libertà di tutte le donne.