di Cristina Rolfini*

Sembra incredibile anche facendolo, eppure oggi si può lavorare dallo sperduto atollo di Fakarava, arcipelago delle Tuamotu, Polinesia francese. Sono le 17.36 e, mentre digito, assaporo il vento fresco e la luce del tramonto. Ho passato la giornata a esplorare questo fazzoletto di mare, e adesso è il momento di recuperare. Fa buio presto, la sera è lunga e la tranquillità mi concilia la concentrazione.

Nella pension famille Havaiki, coltivatori di perle, dove sono alloggiata, il wifi funziona benissimo. Non è dappertutto così, la maggior parte degli atolli ha una connessione lenta, o nessuna. Qui si sono attrezzati, l’ho scelto per questo, oltre che per i suoi rinomati fondali: posso realizzare il mio progetto di lavorare viaggiando anche a queste latitudini remote.

Lavorare viaggiando significa per me: libertà, sogno. Ma anche sostentamento per portare avanti il progetto stesso, la vita nomade che conduco da sei anni. O sei ricco o devi lavorare: io la seconda, ma provando a tenere insieme il viaggio, la scoperta, l’esperienza. La vacanza mi interessa poco, la conoscenza del mondo tantissimo. E fa bene anche al lavoro. Lo rende creativo: respira l’aria nuova di quando cambio posto.

La questione della vita felice mi sta molto a cuore, è un oggetto di indagine a cui mi applico costantemente. E la domanda di quali siano gli ingredienti di un lavoro felice balza subito in primo piano: passiamo così tanto tempo lavorando che è essenziale provare a rispondere.

Mi raffiguro il lavoro felice come un quadrifoglio di qualità.

La prima si trova nella mia scelta di vita e si chiama movimento. Ho sofferto molto la staticità del mestiere di scrivania, 22 anni di lavoro dipendente in una casa editrice di Milano. Sono un’editor, un’occupazione che ti tiene per ore le gambe inchiodate sotto il tavolo e la testa inchiodata alla pagina. Potevo continuare a svolgerla guardando fuori dalla solita finestra: ho scelto di farne un’attività itinerante. Di portarmela in giro, di infilarla nello zaino e farla viaggiare con me. Per periodi brevi o lunghi.

Una scommessa, o meglio, un patto col diavolo: devo farcela, mi sono detta, se voglio cambiare veramente. Questo è il mestiere che so fare, e non posso che impegnarmi a trasformare la mia vita con le competenze che ho a disposizione, organizzandole in una nuova routine. Senza aspettare il cambiamento dall’esterno, ma dando un senso nuovo alle cose che ho sempre fatto.

Ecco il secondo petalo, il senso. Da quando mi sono dimessa, il lavoro non è più il tutto che assorbe tutto il tempo e tutto lo spazio, è diventato parte – certo, una parte consistente – di un insieme più ricco, e anche più divertente. Ed è diventato più importante di prima perché è il motore che mi permette di fare quello che desidero fare. Non si tratta soltanto del pur necessario reddito. Ho sempre coltivato con estremo scrupolo l’autonomia economica, la considero un valore irrinunciabile. È il fine che oggi ha una sostanza che prima non aveva: il lavoro mi aiuta nella vita. È la vita a dominare, e non è sempre così, lo sappiamo in tanti. Quante volte diciamo che il lavoro ci porta via la vita. Adesso, invece, me la rende possibile.

Collegata alla parola “senso” ce n’è un’altra cruciale: servizio. È fortunato chi può dire che il suo lavoro è un servizio, un’attività utile che aumenta la conoscenza, il benessere, la consapevolezza degli altri. Io mi occupo di libri e strumenti on line per la scuola e questo mi fa stare bene. Non riuscirei a stare in un’azienda che produce qualcosa che ritengo dannoso per la salute delle persone o per l’ambiente. Farei di tutto per andarmene, oppure, essendovi costretta dalla necessità, mi sentirei male, fuori posto. Non potrei in ogni caso essere indifferente. Il valore che si attribuisce alle proprie azioni è importantissimo, ha a che fare con l’immagine di sé, con l’autorealizzazione. E, contemporaneamente, con il proprio posto nel mondo, con ciò che si dà alla società.

E, infine, la quarta: relazione. È forse la qualità più difficile e rara, la più sensibile, perché, come si dice, i colleghi non te li scegli. Le cattive relazioni lavorative sono tra le prime cause di sofferenza psicologica, ce lo dicono le statistiche. E per chi, come me, esercita la libera professione – e per di più viaggiando – il rischio della solitudine è molto alto. Per questo, grazie alla tecnologia, coltivo quotidianamente i rapporti di lavoro con particolare cura anche da remoto. Certo, la presenza è un’altra cosa, ma non si può avere tutto.

*Freelance con una lunga esperienza nell’editoria scolastica, curo per Pearson Italia il sito Agorà. Nel mio blog Pensieri Nomadi racconto l’esperienza di una vita in continuo movimento, e cambiamento.
cristina@pensierinomadi.it

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