Ripopolare Venezia grazie alle nuove forme del lavoro digitale. Ma anche trattenere veneziani che altrimenti lascerebbero la laguna. Come? Attirando lavoratori da remoto desiderosi di stabilirsi in una città unica al mondo e creando una nuova comunità ibrida in grado di farne sopravvivere il tessuto sociale, anche grazie a spazi di lavoro innovativi. Si pone obiettivi ambiziosi il progetto ‘Venywhere’, sostenuto dalla Fondazione di Venezia e dall’Università Ca’ Foscari, che punta a invertire la tendenza di una città tanto bella quanto in crisi, dal punto di vista demografico senza dubbio. E le prime risposte fanno ben sperare: già decine di migliaia le visite alla piattaforma dedicata (www.venywhere.it) e oltre 1500 lavoratori da tutto il mondo già iscritti, prima ancora del lancio ufficiale dell’iniziativa. Un progetto che mira a intercettare la vasta platea dei ‘workers from anywhere’, che ormai rappresentano una frontiera sempre più consolidata nel mondo contemporaneo. Ponendo un freno non solo al calo dei residenti (entro l’estate meno di 50mila) ma anche alla chiusura delle attività economiche per i cittadini, in un perverso circolo vizioso.
Il lavoro che cambia – Nato durante la pandemia, mentre la città storica, svuotata dal turismo di massa, si interrogava su come uscirne in modo più sostenibile, il progetto parte dal grande cambiamento in atto: la possibilità di attrarre lavoratori indipendentemente dalla presenza fisica dei datori di lavoro. Da qui l’idea: ‘pescare’ una popolazione di cittadini temporanei – almeno per sei mesi, ma molti puntano a trasferirsi stabilmente – che vivano e consumino come i residenti, portando nuove energie e nuove competenze. Uno scambio senza incentivi economici, basato solo sul fascino di Venezia.
“Venywhere – racconta a ilfattoquotidiano.it Massimo Warglien, docente di Management a Ca’ Foscari, ideatore e coordinatore del progetto – è nato con l’idea di approfittare di un fatto storico diventato evidente: si è diffusa ormai nel mondo una delle tante forme del lavoro remoto, che spesso si chiama from anywhere”. Tradotto? “È una cosa molto diversa dal dover lavorare in cucina con due bambini in dad, si tratta della scelta di poter lavorare dove si vuole, con tempi più liberi”. Un fenomeno sempre più stabile, ben al di là del telelavoro d’emergenza che in Italia si è imposto dopo lo scoppio del Covid. Soprattutto in alcuni segmenti. “I knowledge workers possono davvero lavorare indipendentemente e allo stesso tempo hanno spesso un’alta competenza”, spiega il professor Warglien. “Dal settore tecnologico al marketing, fino alle attività creative come scrittura, fotografia o design: un bilanciamento molto interessante di competenze”. Chi sono dunque i potenziali nuovi residenti digitali che hanno già dimostrato interesse? “Per la stragrande maggioranza 30-40enni provenienti dal Nordamerica, dal Regno Unito o dal Nordeuropa. Ma anche dalla Spagna e dall’America Latina, con capacità di spesa e voglia di muoversi, spesso in un’ottica di lungo periodo: una popolazione ideale che può cambiare le regole del gioco dello sviluppo di tante città storiche, soprattutto di Venezia”. Un bacino enorme, che non ha bisogno di incentivi economici, anche perché “su scala internazionale Venezia non è cara”. Non a caso, tra quelli che si sono già iscritti molti provengono da paesi dove il lavoro da remoto è ben consolidato e i salari sono maggiori rispetto a quelli italiani.
I fronti aperti – “Venywhere – racconta il professore, che nella costruzione del progetto è coadiuvato da un gruppo di giovani collaboratori – gioca su due fronti: da un lato si rivolge a queste popolazioni di lavoratori in remoto nel mondo, Italia compresa naturalmente, dall’altro si rivolge alla città attivando servizi e risorse, aiutando i nuovi abitanti a inserirsi nel tessuto cittadino”. Come? “Offrendo opportunità di integrazione, dalle tante associazioni al volontariato, dai corsi di artigianato agli sport lagunari: sono modi per entrare nella comunità locale ma anche per aiutare la comunità locale stessa. È uno scambio”. Che non si tratti di una semplice voglia di vacanza di lavoro si capisce dalle richieste degli stessi iscritti, in buona parte già intenzionati a fermarsi ben più di sei mesi, se non a tempo indefinito: “Questa è un’altra buona notizia, vuol dire che c’è una reale spinta a trasferirsi. Ciò permette di immaginare servizi che durino nel tempo, non brevi come per il turismo”. Uno dei fronti più caldi su cui lavorare, infatti, è l’offerta residenziale. “Il nostro obiettivo è di spostare l’offerta dal breve periodo turistico al medio-lungo, il che permetterebbe di non competere col mercato dei veneziani ma di avere contratti più stabili rispetto a quelli a uso turistico. Questo potrebbe essere un beneficio per tutti”.
Il rischio, però, è di interpretare l’iniziativa come un semplice invito a trasferirsi da ogni parte del mondo. “No, il progetto non è per gli stranieri ma per la città. Con l’obiettivo di tenere in vita il panificio sotto casa che altrimenti chiuderebbe, per fare un esempio”. “Venywhere infatti – continua il professore – punta anche a trattenere residenti destinati a lasciare Venezia, soprattutto laureati. E per questo sarà fondamentale trovare adeguati spazi di lavoro da remoto, anche in modo innovativo”. C’è una via di mezzo, infatti, tra il luogo di lavoro classico e il lavoro remoto svolto dalla cucina di casa in condizioni disagevoli. “Venezia oggi ha pochi spazi di co-working e anche poco usati. Vorremmo promuovere degli spazi ibridi, ovvero spazi semi-utilizzati. Dalle fondazioni ai musei, dai laboratori artigianali alle gallerie d’arte: ci sono tantissimi spazi utilizzati solo part-time”. Luoghi di lavoro diffuso, quindi. Anche all’aperto. “Nel prossimo decennio – spiega Warglien – potremmo assistere alla desegregazione fisica del lavoro, fuori dagli schemi della fabbrica o dell’ufficio. Diventerà fondamentale anche sviluppare tecnologie per lavorare all’aperto”.
Le tappe – Lavoro e città, dunque. Due aspetti che devono necessariamente tornare a intrecciarsi, “anche aggiornando il sistema italiano dei visti lavorativi”, suggerisce Warglien, che sogna Venezia come laboratorio di nuove forme di lavoro contemporaneo. “È molto di moda parlare di ‘città dei 15 minuti’, dove tutto sia raggiungibile in 15 minuti, appunto. Beh, Venezia è già una città di 15-20 minuti!” Se, però, il Comune di Venezia conta attualmente 256mila abitanti (erano 367mila nel 1968), la città storica piange i suoi 50mila ultimi resistenti, che entro l’estate scenderanno a 49mila. Una tendenza che si trascina da decenni, a causa di vari fattori. In 70 anni, Venezia ha perso 123mila residenti: nel 1951, infatti, il picco massimo di 174.808 residenti, poi il trend discendente e inesorabile. “Ma Venezia ha già conosciuto una grande crisi demografica nell’Ottocento”, racconta il professore. “Poi si è ripopolata grazie a gente venuta da fuori. Tutte le città si ripopolano così. Ecco perché sembra naturale far leva su questa popolazione estremamente interessante”.
Pronti, via, allora. La prima fase pilota è partita a marzo con 16 lavoratori da vari paesi d’Europa dell’impresa Cisco, leader mondiale nelle tecnologie abilitanti le modalità di lavoro innovativo. Da settembre si punta alla partenza ufficiale di Venywhere. Obiettivi numerici? “Il collo di bottiglia è l’offerta residenziale, ma penso sia ragionevole auspicare un migliaio di trentenni ogni anno, a regime, per quanto ora sia prematuro dare cifre”, risponde il docente. Che non immagina certamente di risolvere i tanti problemi di Venezia. E nemmeno quello dello spopolamento da solo. “Venywhere è un pezzetto, ma potrebbe portare effetti di moltiplicazione: a Venezia serve mettere in moto un meccanismo”. Per dare la scossa e rivitalizzare una città che merita di resistere.