L’Italia potrebbe ridurre le emissioni legate oggi alla filiera della plastica di appena il 9% al 2050, oppure arrivare a tagliarle del 98%, soprattutto attraverso un calo del 35% dei consumi. Sono due e molto distanti tra loro gli scenari, al 2050, relativi al consumo di plastica in Italia e alle emissioni di CO2 equivalenti che da questo deriverebbero. Entrambi sono descritti nel report La plastica in Italia, vizio o virtù, elaborato dal think tank Ecco, in collaborazione con il Cluster Spring, Greenpeace e con le Università di Padova e di Palermo. Nel dossier che il think tank presenta oggi e di cui ilfattoquotidiano.it racconta in anteprima i contenuti, si passano in rassegna le varie fasi dell’intera filiera (anche delle bioplastiche), dalla produzione al riciclo, e si calcola il contributo che diverse strategie possono dare alla decarbonizzazione, proponendo alcune azioni concrete. Nello scenario ‘Business as usual’ si ipotizza che il consumo di plastica aumenti del 5% ogni sei anni, come osservato dal 2011 al 2017 e che si facciano pochi passi avanti. Nello scenario ‘Best case’, invece, si stima quali sarebbero le emissioni con una serie di cambiamenti netti, come l’eliminazione dell’overpackaging, una domanda dimezzata di imballaggi in plastica monouso e un riciclo dei rifiuti plastici al 92,5%.
Strategie per decarbonizzare la filiera – Una rivoluzione, dato che l’Italia è il secondo Paese in Ue nei consumi, con 5,9 milioni di tonnellate di polimeri fossili nel 2020, corrispondenti a quasi 100 chilogrammi a persona. Ma il think tank Ecco individua tre pilastri per decarbonizzare la filiera: oltre alla riduzione del consumo di polimeri fossili vergini, il riciclo e il riutilizzo e la sostituzione con le bioplastiche ottenute da materie prime vegetali. Queste ultime, infatti, possono rappresentare una soluzione per la decarbonizzazione di quelle applicazioni in cui non è possibile rinunciare all’utilizzo della plastica e per le quali non ci sono altre alternative ancora più sostenibili. In Europa, però, il 99% della plastica vergine viene prodotta utilizzando come materie prime petrolio e gas naturale, impiegati anche per la generazione del calore durante il processo produttivo.
La plastica e le emissioni di CO2 – Così si immettono in atmosfera circa 1,2 chilogrammi di CO2 per ogni chilo di plastica, considerando la sola fase di produzione. Se si esaminano anche le emissioni relative a estrazione e raffinazione dei combustibili, per la produzione di 1 chilo di plastica si arriva a circa 1,7 kg di emissioni dirette di CO2, a cui se ne aggiungono altri 3,1 qualora i rifiuti plastici vengano destinati all’incenerimento. “Il settore della plastica rappresenta un esempio evidente dell’importanza di allineare i processi industriali alle sfide climatiche” spiega a ilfattoquotidiano.it Matteo Leonardi, co-fondatore e direttore esecutivo Affari Domestici del think tank Ecco. “Il sostengo dell’impresa da parte del settore pubblico – aggiunge – deve essere cercata all’interno di soluzioni normative per la riduzione dell’utilizzo della plastica e l’incremento del riuso e del riciclo, attraverso la fiscalità, norme precise sull’usa e getta ed una normativa sul deposito cauzionale che abbia già in mente gli obiettivi europei”. Il 42% della plastica consumata in Italia, infatti, viene utilizzata nel settore degli imballaggi e dell’usa e getta, il 12% nell’edilizia e il 7% nell’automotive. Poco più del 30% dei rifiuti plastici viene destinato al riciclaggio e le bioplastiche rappresentano quasi il 6% del mercato (in termini di produzione).
Con il ‘business as usual’ riduzione minima delle emissioni – Nel primo scenario, quello ‘Business as usual’, facendo riferimento a studi condotti con metodologia LCA presenti nella letteratura scientifica, si ipotizza che la tendenza di crescita dei consumi del 5% in sei anni prosegua fino al 2050, raggiungendo le 7,5 megatonnellate. Scende al 50,4% (oggi è oltre l’88%) la quota di plastica di origine fossile immessa sul mercato italiano e sale al 35% (è stimata al 30,6 nel 2030) quella prodotta utilizzando materia prima secondaria. Al 2050 resta al 14,6% (immutata rispetto alle stime per il 2030) la quota di bioplastica ottenuta da materie prime vegetali (biobased). Considerando il fine vita, si ipotizza che il 70% dei rifiuti plastici post-consumo vengano riciclati e che un quarto della plastica biobased (il 3,7%) venga destinata al compostaggio. In questo scenario, il restante 26% (nel 2021 è al 33%) dei rifiuti plastici finisce nei termovalorizzarori. Alla fine, si ottiene una riduzione delle emissioni del 9% rispetto al 2021.
Lo scenario best case, un taglio netto – Nello scenario ‘Best case’ si ipotizza che, grazie all’eliminazione dell’overpackaging, si ottenga una riduzione del consumo di plastica per imballaggi del 30%. “Si assume inoltre – spiega il report – che al 2050 gli imballaggi monouso rappresentino il 50% di quelli in plastica immessi sul mercato”. Considerando, poi, l’effetto che ha avuto il divieto di utilizzo dei sacchetti di plastica tradizionali, riducendo in generale il consumo dei sacchetti per asporto merci usa e getta (a prescindere dal materiale), il think tank ha stimato una riduzione del 50% sia della domanda di imballaggi in plastica monouso sia in altri settori. “Si ottiene, dunque – spiega il report – un consumo di plastica di 3,8 megatonnellate al 2050”, circa la metà rispetto al ‘Business as usual’. Nello Scenario al 2050 ‘Best case’ si ipotizza, poi, che sul mercato italiano non venga più immessa plastica di origine fossile, ma solamente prodotta da materiale riciclato (70% dell’immesso al consumo) e plastica biobased (per il restante 30%). Considerando il fine vita, si ipotizza uno scenario al 2050 nel quale la plastica non viene più bruciata negli inceneritori, ma che un quarto della plastica biobased (7,5%) venga avviata al compostaggio e il 92,5% dei rifiuti plastici post-consumo al riciclaggio. Si arriva così a un taglio delle emissioni del 98%.
Ridurre i consumi – Secondo una recente ricerca della società tedesca GVM, la riduzione degli imballaggi sovradimensionati può ridurre i consumi di plastica per gli imballaggi in Germania fino al 27%. Considerano che nel 2020 in Italia sono state consumate 2,5 milioni di tonnellate di plastica per la fabbricazione di imballaggi, eliminando l’overpackaging si potrebbe ridurre il consumo di plastica di 0,7 megatonnellate, evitando l’emissione di 1,1 Mt di CO2. Diversi Paesi europei hanno messo in campo azioni per eliminare gli imballaggi in plastica monouso, come ha raccontato anche ilfattoquotidiano.it, nell’ambito della campagna ‘Carrelli di plastica’, condotta in collaborazione con Greenpeace Italia. D’altro canto, stando ai calcoli della Commissione Ue, l’attuazione della Direttiva Sup (Single Use Plastics), non recepita ancora correttamente in Italia, dovrebbe ridurre di oltre la metà i rifiuti derivanti dagli articoli in plastica monouso messi al bando, “evitando l’emissione in atmosfera di 3,4 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti entro il 2030”.
Il riciclo della plastica – Il dossier passa in rassegna vantaggi e limiti del riciclo, sia meccanico sia chimico (con cui in Italia ad oggi viene trattato solo lo 0,1% dei rifiuti plastici). Nel 2018, in Italia è stato avviato al riciclo meccanico il 31% dei rifiuti post-consumo in plastica, corrispondente a 1,1 milioni di tonnellate, quasi per la totalità (un milione di tonnellate) composto da imballaggi. A riguardo, se la plastic tax italiana è stata rinviata a gennaio 2023, nel Regno Unito da aprile 2022 è in vigore una tassazione sugli imballaggi di plastica con un contenuto di materiale riciclato inferiore al 30%. “Si stima che l’uso di plastica riciclata negli imballaggi potrebbe aumentare di circa il 40% in un anno – spiega il report – con un equivalente risparmio di emissioni di carbonio di quasi 200mila tonnellate nel biennio 2022-2023”. Il riciclo meccanico offre diversi vantaggi, anche se “le lavorazioni e l’utilizzo delle materie plastiche, la scarsa efficienza di alcuni sistemi di selezione dei rifiuti e l’aggiunta di coloranti e additivi possono limitare il riciclo meccanico alla produzione di manufatti di scarsa qualità”.
Il ruolo delle bioplastiche – Anche se la riduzione dei consumi resta la strada maestra, in particolare per l’usa e getta, questa strategia non è applicabile a tutti i tipi di packaging. Basti pensare alla vendita di alcuni prodotti freschi alimentari, come carne o pesce. In questo caso, si spiega nel report, le bioplastiche possono rappresentare una soluzione virtuosa. Diverse le applicazioni, dal settore agricolo all’industria automobilistica. Attualmente, le materie prime a base agricola (piante ricche di carboidrati, come il mais o la canna da zucchero) sono l’opzione più efficiente e redditizia. “Si stima che nel 2021 a livello globale siano stati dedicati circa 0,7 milioni di ettari per la coltivazione della materia prima vegetale necessaria per la produzione di bioplastiche, poco più dello 0,01% della superficie agricola globale di 5 miliardi di ettari” si spiega nel report. Ma, considerando l’aumento previsto della produzione di bioplastiche, “bisognerà evitare di entrare in competizione con la filiera alimentare e sarà necessario limitare lo sfruttamento del suolo”.
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