di Lorenzo Morri
Peter Doshi, editor del prestigioso British Medical Journal, a dicembre scrisse che la fine della pandemia non sarebbe stata annunciata in televisione. Infatti, a terminare compiutamente in un tempo definito non possono essere i fenomeni biologici in sé stessi, ma solo quelli psicologici della paura e dell’attenzione collettiva ad essi correlati. Prima o poi si presenta un nuovo evento catalizzatore, che riattiva in altra direzione le emozioni social-mediatizzate in via di esaurimento perché troppo a lungo e intensamente convogliate verso un precedente evento catalizzatore, ormai divenuto vecchio.
I carri armati russi e le città in macerie dell’Ucraina hanno accelerato la fine della pandemia. Ma che cosa ci stanno insegnando i missili che sibilano e i milioni di persone in fuga?
1) Che la guerra, vera, è quella che gli uomini decidono di muovere contro altri uomini e che è stato fuorviante parlare per due anni, ogni giorno e ad ogni ora, di “guerra al Covid”, secondo una metafora incongrua, che ha avuto l’unico effetto di accendere un conflitto civile strisciante tra pro-vax e no-vax.
2) Che, quando nel marzo del 2020, in poche settimane, i morti per il contagio a Milano uguagliarono in numero quelli dei bombardamenti della Seconda guerra mondiale e la stampa ne riferì come indice di catastrofe, si trattava di un errore di prospettiva. Le vittime di un agente patogeno, che colpisce in aggiunta o in concorso con tante altre cause di decesso, non si contano sulla stessa scala delle vittime delle bombe. In una guerra vera ogni corpo esanime, sia bambino sia anziano, è un corpo la cui vita si è deciso di distruggere – un corpo alla cui vita, naturalmente esposta a innumerevoli pericoli che non possono non esserci, si è arbitrariamente deciso di aggiungerne un altro, che poteva non esserci.
3) Che il confronto con una guerra vera (quella dei nostri nonni e bisnonni), servito spesso agli adulti per minimizzare il senso di privazione vissuto dai giovani durante questi anni di confinamento e chiusure scolastiche e sportive, era sbagliato in radice. Perché anche la “guerra al Covid”, una guerra come metafora, è stata condotta tuttavia con mezzi così violenti da produrre costrizioni e sofferenze pienamente reali.
Il problema è che in ogni guerra, vera o metaforica, c’è qualcuno che per ignoranza o impazzimento continua a combattere anche fuori tempo, come quei giapponesi sperduti nelle isole del Pacifico che si ostinavano a resistere a dispetto della resa. Ecco, in Italia, dove si stanno spegnendo i fuochi della guerra come metafora, ma nelle scuole persistono sfilze di divieti e dal 1 maggio studenti e insegnanti saranno gli unici cittadini obbligati a indossare le mascherine al chiuso, sembra di essere gli “ultimi giapponesi” di una vicenda ovunque pressoché conclusa per il dileguare delle forze di attenzione e di paura, mentre i fuochi della guerra vera infuriano tremendi accanto a noi.
* “Presidio primaverile per una Scuola a scuola” – Liceo Leonardo da Vinci – Casalecchio di Reno (BO)