Ai suoi amici più cari padre Ernesto Balducci amava confessare, lui che da buon maremmano aveva modi timidi e spicci, che la sua rottura con la Dc avvenne ai tempi della guerra in Vietnam, anni Sessanta. “Era una questione morale schierarsi dalla parte dei vietcong contro l’aggressione americana. Sulla pace e sui diritti non si può transigere e invece il partito cattolico si era schierato dalla parte degli Usa e della Nato. Inaccettabile per me”. La battaglia per la pace, il disarmo e i diritti è stato il filo rosso che ha intrecciato la vita di Ernesto Balducci, nato cent’anni fa, il 6 agosto, a Santa Fiora, un borgo in provincia di Grosseto, e morto, in un incidente stradale, il 25 aprile del 1992. “Io sono stato fedele, più che alle istituzioni, alle coscienze che sono cresciute attorno a me”, disse in un’intervista a Tomas Angeli per Rai Tre, poco tempo prima di morire. Una sorta di testamento spirituale.
Promossa dalla fondazione “Ernesto Balducci” e dalla rivista Testimonianze si terrà, il 9 aprile a Palazzo Vecchio, a Firenze, l’inaugurazione degli eventi per il centenario del sacerdote pacifista alla presenza, tra gli altri, dei cardinali Paolo Lojudice e Giuseppe Betori, di Walter Veltroni e del teologo Vito Mancuso mentre nel pomeriggio si terrà una tavola rotonda su “Culture e religioni di fronte alla sfida dell’età planetaria” con Enzo Bianchi, fondatore della comunità di Bose, la storica Anna Foa e la sociologa e scrittrice Sumaya Abdel Qader, con letture di Paolo Hendel.
Figlio di una Maremma povera e aspra, come quella raccontata dallo scrittore Luciano Bianciardi, Balducci ha avuto il suo primo maestro in Manfredi, il fabbro ferraio di Santa Fiora, anarchico e anticlericale, che quando Ernesto, a dodici anni, decide di entrare in seminario nei padri scolopi, si raccomandò: “Bada ragazzo, non ti fare rovinare dai preti”. Trent’anni dopo, nell’estate 1964, dopo la condanna subita per aver difeso l’obiezione di coscienza e gli obiettori al servizio militare, tornato a Santa Fiora a pregare sulla tomba del babbo Luigi, un minatore, ad un certo punto Balducci incontrò il vecchio Manfredi che lo abbracciò dicendogli: “Bravo Ernesto, non ci sono riusciti”.
Aneddoto che racconta l’attaccamento di padre Balducci alle sue radici maremmane, a quel mondo popolare di minatori, dal quale non si è mai staccato, e la sua collocazione laica e non clericale nella Chiesa, alla quale rimase comunque fedele, tenendo contatti amichevoli con molti vescovi e cardinali, a cominciare da papa Paolo VI. Laicità che Balducci riassume nell’Uomo planetario, uscito nel 1985, con una frase suggestiva, che ha avuto molta fortuna: “Chi ancora si professa ateo, o marxista, o laico e ha bisogno di un cristiano per completare la serie delle rappresentanze sul proscenio della cultura, non mi cerchi. Io non sono che un uomo”. Balducci chiude qui il cerchio della sua vita (non a caso nel 1986 esce Il cerchio che si chiude, libro intervista di Luciano Martini al prete scolopio). La consapevolezza di non essere che un uomo si ricollega per certi versi alla frase che il “maestro” Manfredi aveva appesa al gabinetto della sua officina: “Saranno grandi i papi, saran potenti i re, ma quando qui si seggono, sono tutti come me”.
Dopo aver attraversato nella sua vita diversi tempi, dagli anni in cui fu stretto collaboratore di Giorgio La Pira a quelli dell’esilio (nel 1959 fu mandato per punizione a Frascati) e del Concilio Vaticano II, fino alla rottura con la Dc e con la Chiesa ufficiale per ricercare, nella diaspora, un comune sentire con gli ultimi, i poveri. Non da cristiano o da comunista, ma semplicemente da uomo tra gli uomini. Come a suo modo gli aveva insegnato il fabbro Manfredi.