Il Financial Fair Play cambia. Non avrà più nemmeno lo stesso nome. “Nuove regole di sostenibilità finanziaria”: così la Uefa annuncia quella che vorrebbe essere una riforma epocale, in attesa di trovare una formula più accattivante. La sostanza è che le vecchie norme che per un decennio hanno frenato le spese delle squadre di calcio – non di tutte, solo di alcune – vengono archiviate, superate dalla crisi per il Covid e dal tempo. Arriva un sistema diverso, probabilmente più trasparente, si spera più efficace: una specie di salary cap all’europea, che per la prima volta introduce un rapporto obbligatorio fra spese e entrate di una squadra, nella speranza che serva a sgonfiare l’enorme bolla di stipendi e commissioni.
Introdotto per la prima volta nel 2010, voluto dall’ex presidente Michel Platini, il Financial Fair Play per come l’abbiamo conosciuto fino ad oggi si fondava essenzialmente sul principio del “pareggio di bilancio”: il saldo di un club nel corso di un triennio doveva essere per forza positivo, con uno scostamento massimo di 30 milioni di euro complessivi, pena sanzioni varie a seconda delle gravità dell’infrazione, da multe fino all’esclusione dalle coppe. Se abbia funzionato o meno, dipende soprattutto dai punti di vista: numeri alla mano, lo strumento è riuscito a risanare complessivamente i conti del pallone europeo, passato a livello di sistema dagli 1,6 miliardi di perdite del 2009 a un utile di 140 milioni nel 2018. Certo, però, diverse squadre sono riuscite singolarmente ad aggirare le maglie, causando pesanti storture. Comunque sia andata, il meccanismo non era più attuale: il Covid e la devastante crisi che ne è seguita hanno fatto accumulare una tale montagna di debiti che la Uefa è stata costretta a condonarle e sospendere il Ffp (altrimenti avrebbe dovuto sanzionare mezza Europa).
Così si arriva alla riforma, che si basa su tre pilastri: solvibilità, stabilità e contenimento dei costi. I primi due non sono una grossa novità. Innanzitutto, i club non potranno più avere debiti non onorati nei confronti di squadre, dipendenti e autorità fiscali (ovviamente non delle banche, su cui grava la stragrande maggioranza delle esposizioni finanziarie). Il secondo, è un’evoluzione della vecchia regola del pareggio di bilancio, per cui lo scostamento triennale viene esteso da 30 a 60 milioni di euro (70 per i club in salute). La rivoluzione, grande o piccola si vedrà, è la terza regola, l’introduzione di una specie di salary cap: le società potranno spendere per stipendi, commissioni e acquisti al massimo il 70% del proprio fatturato. Si tratta di un modo diverso di applicare lo stesso principio (“conti in ordine”), entrando nel merito dell’operato dei club, nel tentativo di porre un freno alle spese sempre più incontrollate (soprattutto per l’ingaggio dei calciatori). La riforma scatterà già dall’anno prossimo, ma con un percorso graduale (primo anno 90%, secondo 80%), per andare a regime nella stagione 2024/2025, la prima della nuova Champions League.
È presto per dire se questo nuovo sistema sarà migliore o peggiore, più o meno efficace del precedente: siccome si è visto che il diavolo si nasconde nei dettagli, dipenderà da come verrà applicato esattamente, come saranno calcolati ad esempio i costi dei trasferimenti, quanto rigidi saranno controlli e sanzioni. Soprattutto, bisognerà capire in che modo saranno affrontati i grandi nodi irrisolti, due esattamente: le plusvalenze (noi in Italia ne sappiamo qualcosa) e i rapporti con le parti correlate, cioè gli sponsor fatti in casa dalle proprietà dei club a cifre spropositate (leggi Paris Saint-Germain, Manchester City &Co.), che gonfiano il fatturato, aggirando qualsiasi paletto normativo. Fin qui, quando la Uefa ha provato a ricondurle a valori di mercato ha fallito miseramente, per colpe non solo sue (anche il Tribunale internazionale ci ha messo del suo). Il punto è tutto qua, e ad oggi onestamente non si vede perché dovrebbe cambiare qualcosa.
Detto ciò, la verità è che per tutti questi anni il Financial Fair Play ha dovuto convivere con un grande equivoco: non era stato pensato per limitare le spese pazze dei grandi club, solo per non spendere soldi che non ci sono. Se l’obiettivo fosse stato il primo, ad esempio, oggi si ragionerebbe su un salary cap uguale per tutti, sul modello americano. Il principio di massima invece resta il secondo: viene riproposto anche dalle nuove regole, che almeno nel breve termine finiranno per favorire i club più ricchi (cioè principalmente le inglesi), oltre che ovviamente quelli più virtuosi, ponendo però un limite alla bolla di debiti, commissioni e ingaggi che oggi rappresentano il vero problema del calcio moderno, molto più dello strapotere delle inglesi e degli sceicchi. Potremmo sintetizzare tutto nel motto: “Chi più ha, più spende”. Non sarà il massimo dell’uguaglianza, ma in fondo è così che è sempre andato avanti il pallone.