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Filippo Timi a FQMagazine: “La follia nel mio lavoro? È sciocco fare questa associazione, come mettere insieme chiappe nude e Pride. Sono innamorato, non ricambiato”

Da qualche settimana è il co-protagonista con Francesco Scianna di uno dei titoli più visti su Netflix, Il filo invisibile, film agrodolce che racconta l’amore conflittuale tra due padri e il percorso di un figlio adolescente, Leone, che vive la sua prima storia d’amore mentre la sua famiglia va in crisi: "Racconta l’inclusività, abbatte cliché, svela come le famiglie omogenitoriali abbiano problemi e dinamiche del tutto simili a quelle etero. Forse dovrebbe guardalo chi è fermo a preconcetti e banalità da slogan elettorali"

di Francesco Canino

Filippo Timi da piccolo sognava di fare il Papa. “Sarei stato un Papa progressista, una figura alla San Francesco”, ironizza. Poi ha virato su un sogno più fattibile, quello di diventare attore, e c’è riuscito puntando su carisma, talento e unicità e variando liberamente tra cinema, teatro e tv. Da qualche settimana è il co-protagonista con Francesco Scianna di uno dei titoli più visti su Netflix, Il filo invisibile, film agrodolce che racconta l’amore conflittuale tra due padri e il percorso di un figlio adolescente, Leone, che vive la sua prima storia d’amore mentre la sua famiglia va in crisi. Il tono è quello della commedia (anche degli equivoci) e permette di raccontare le famiglie omogenitoriali, ma non solo, andando oltre cliché e stereotipi.

Al centro de Il filo invisibile c’è l’amore conflittuale, il divorzio catastrofico di una coppia gay e un figlio, Leone, in equilibrio tra due padri. Pensa che oltre a essere una commedia sia anche un film politico?
Ogni gesto artistico è a suo modo un gesto politico. Qualche tempo fa ho fatto uno spettacolo raccontando di una mia cugina handicappata e l’ironia che usavo in scena era super politica. Quanto a Il filo invisibile, non credo lo fosse nelle intenzioni iniziali del regista ma lo è diventato raccontando un pezzo di realtà spesso ignorata dalla politica italiana.
Chi pensa che dovrebbe guardarlo?
Quando recito una parte non penso a che pubblico quel film o quello spettacolo parlano. Lo faccio perché ci credo. Il filo invisibile racconta l’inclusività, abbatte cliché, svela come le famiglie omogenitoriali abbiano problemi e dinamiche del tutto simili a quelle etero. Forse dovrebbe guardalo chi è fermo a preconcetti e banalità da slogan elettorali.
Cos’ha pensato la prima volta che ha letto il copione?
Che c’era un modo intelligente e non scontato per raccontare la vita delle coppie omosessuali con figli, le relazioni familiari, la procreazione assistita. Marco Simon Puccioni, il regista, ha vissuto davvero questa storia e ha saputo narrare con un punto di vista unico la famiglia contemporanea.
Lei è Paolo, sposato con Simone e papà di Leone, nato in California grazie a Tilly.
Ma quando ho letto il copione ho pensato: “Ok, voglio fare Simone”. Volevo essere l’altro papà, quello che tradisce.
E il regista che le ha detto?
“Studia entrambe le parti, poi vediamo”. Lui aveva pensato a me per interpretare Paolo e dopo la prima audizione ho capito che aveva ragione.
Voleva essere Simone perché ha l’indole del traditore?
(ride) No, affatto. Era una questione legata ad un’insicurezza sulla mia comicità, una mia fissa tecnica. Marco mi ha spiegato che idea aveva in mente e mi ha dato la chiave per entrare nella parte.
Ci pensa mai a che papà potrebbe essere?
Ho avuto dei genitori molto apprensivi, soprattutto mia mamma, e mi sono sempre detto: se mai diventerò padre, cercherò di non essere apprensivo.
Ha mai accarezzato da vicino l’idea di diventare genitore?
A un certo punto sì ma poi non è poi stata approfondita o coltivata. Se mai lo fossi diventato, avrei cercato di essere un padre dialogante: mio papà ha sempre parlato poco, non per cattiveria ma per indole… forse perché non c’erano soldi, forse perché aveva tante preoccupazioni da affrontare. Si è rilassato con gli anni e oggi con le mie nipoti è molto più chiacchierone.
E lei che zio è?
Un po’ apprensivo ma molto giocherellone. Lo zio si gode il meglio, ha un carico minimo di responsabilità.
Tornando a Il filo invisibile, si parla di unioni civili e di separazioni conflittuali.
Le dinamiche sono pressoché identiche a quelle delle cosiddette “famiglie normali”. Anche per questo, da cittadino italiano credo che sarebbe normale arrivare al matrimonio egualitario superando le unioni civili. Ironicamente dico che è importante avere la possibilità di sposarsi per decidere di non farlo.
Lei è sposato, d’altronde.
Non più, sono divorziato.
Senza spoilerare troppo, a un certo punto del film i due genitori si ritrovano ad affrontare il riconoscimento legale del figlio. A Torino, pochi giorni fa, il Prefetto ha sospeso la registrazione all’anagrafe dei figli delle coppie gay. Che impressione le fa questa notizia?
Penso che sia profondamente ingiusto, perché quella che per molti è solo una questione burocratica in realtà incide sulle vite delle persone. Dare il cognome di entrambi dà una sicurezza ai figli ma anche ai genitori, che la notte dormono con il diaframma più disteso e una preoccupazione in meno. Mi sembra solo un accanimento su un principio.
Giorgia Meloni ha da poco ribadito che l’adozione va riservata solo alle coppie etero.
Come se l’adozione ai gay togliesse qualcosa. Una vita che nasce non toglie niente a qualcuno che già c’è. Una vita affidata a una nuova famiglia non toglie nulla a chi una famiglia già ce l’ha. C’è solo da festeggiare se un bambino trova accoglienza e amore.
Lei è reduce da una stagione teatrale di grande successo, prima con Promenade de santé e poi con Mrs. Fairytale. Prossimo spettacolo?
Da qui al prossimo anno non avrò molto temo per il teatro perché ho diversi impegni cinematografici di cui ancora non posso parlare. Ora sono già sul set e poco prima dell’estate andrò in scena con il violinista Rodrigo D’Erasmo con uno spettacolo su Pasolini che sto allestendo con una formula inedita. Vuole sapere che mi sono inventato?
Dica.
Invece che fare le prove da solo, a casa, le faccio aperte al pubblico al Teatro Argot di Roma, il sabato sera dopo le 23. Sperimento dei frammenti, alterno monologhi e frazioni sceniche. È strano, a tratti surreale. Ed è bello aver trovato un teatro pazzo e coraggioso che abbia detto di sì.
La quota follia quanto è importante nel suo lavoro?
Zero. C’è molta più follia in banca che su un palcoscenico. Associando la follia all’arte si reitera un immaginario sciocco, come quelli che associano le chiappe nude ai Pride. So che sembro matto se sto due ore a ragionare su come dire una battuta ma quella che in molti scambiano per follia è solo la sensibilità.
Oltre al cinema, ha ricevuto proposte per nuove serie tv?
Sì, ma non dico nulla finché non firmo.
Il suo grande sogno?
Fare un film da regista: ma prima devo trovare la storia giusta sennò è solo un sogno sprecato.
È innamorato?
Innamorato ma non ricambiato.

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