Si tratta di un impianto costruito in una zona sismica, entrato in esercizio nel 1983 e privo di un deposito per smaltire i rifiuti. Il progetto è stato sottoposto a Via transfrontaliera, dunque sono stati chiamati ad esprimersi i paesi confinanti e quelli coinvolti. L'Italia non si è ancora espressa e il governo non ha risposto a un'interrogazione scritta sulla questione. Legambiente all'attacco
Se l’Unione europea cerca soluzioni alla crisi energetica esplosa con la guerra in Ucraina, la Slovenia è convinta di trovarle nel nucleare. Con un progetto che riguarda da vicino l’Italia: prolungare di vent’anni, dal 2023 al 2043, la vita della vecchia centrale nucleare di Krško, distante poco più di 100 chilometri dal confine italiano. Si tratta di un impianto costruito in una zona sismica, entrato in esercizio nel 1983 e privo di un deposito per smaltire i rifiuti. Il progetto è stato sottoposto a Via transfrontaliera, dunque sono stati chiamati ad esprimersi i paesi confinanti e quelli coinvolti: Italia, Austria, Slovenia, Croazia, Bosnia, Ungheria. Ad oggi Roma non si è ancora espressa nel merito, nonostante sia stata anche presentata a febbraio un’interrogazione parlamentare, a prima firma dell’onorevole Rossella Muroni, indirizzata al premier Mario Draghi e ai ministri degli esteri Luigi Di Maio e della Transizione ecologica Roberto Cingolani. Interrogazione a cui non è mai seguita una risposta. E mentre in questi mesi le associazioni ambientaliste di tutti i paesi coinvolti si sono unite per ribadire il proprio no alla centrale nucleare, Legambiente chiede che l’Italia si pronunci come ha già fatto l’Austria e, dato che fino al 14 aprile è attiva la fase di consultazione che coinvolge la società civile e gli enti locali, invia le sue osservazioni al Mite.
Perché la centrale va chiusa. Le ragioni (anche) dell’Italia – “La vicenda della centrale slovena di Krško – spiega Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente – ma anche la guerra in corso in Ucraina, dove si trovano quattro centrali in funzione, ci ricordano che con il nucleare non si scherza. Stiamo parlando – aggiunge – di una tecnologia insicura dove il rischio di un incidente è sempre dietro l’angolo, soprattutto in area sismica e sistemi di sicurezza inadeguati rispetto alla potenza dei terremoti prevedibili in quell’area”. Sarebbe, tra l’altro, una beffa per l’Italia, che sul proprio territorio ha bocciato l’atomo con due referendum nell’87 e nel 2011. L’associazione ha organizzato una diretta streaming, alla quale ha partecipato anche il sismologo Livio Sirovich, che è stato consulente del primo governo sloveno intenzionato a chiudere la centrale. Il sismologo ha spiegato le ragioni alla base delle osservazioni inviate formalmente al Ministero da un gruppo di scienziati (geologi, sismologi e geofisici) nell’ambito della Consultazione transfrontaliera sulla proposta di estensione del funzionamento della centrale. D’altro canto, come raccontato da ilfattoquotidiano.it, ormai da diversi anni Sirovich e alcuni suoi colleghi sismologi e geologi stanno cercando di spingere il parlamento italiano e Bruxelles ad approfondire la questione.
Il rischio sismico – Gli studi sismologici più recenti confermano che il contenitore del reattore era stato progettato per resistere a scosse con una PGA (massima accelerazione al suolo) di 0,3 g. “Gli stress test condotti per volontà dell’Ue indicano in 0,8/0,9 g il limite oltre il quale il contenitore si potrebbe lesionare, con fuoriuscita di materiale fissile – spiega Legambiente – e gli studi più recenti dimostrano che tali valori possono venire superati da terremoti possibili nell’area”. I sismologi francesi, italiani, austriaci e sloveni hanno accertato che il sito di Krško, dunque, non è adatto a una centrale nucleare, proprio per il forte rischio sismico dovuto alla prossimità del sito a ben tre faglie attive (Orlica, Libna e Artiče) in grado di produrre terremoti di magnitudo massima pari a circa 7 (30 volte l’energia dei terremoti de L’Aquila nel 2009 e dell’Emilia nel 2012). Valutazione fatta anche dall’Irsn (Istituto francese di radioprotezione e sicurezza nucleare), consultato dalla Slovenia nel 2013 al fine di costruire a Krško una seconda centrale (Nek 2) e che aveva già constatato l’inadeguatezza del luogo. Per Legambiente si tratta di un’analisi che “può certamente essere estesa alla vecchia centrale esistente, nonostante la Slovenia, nel 2013, ignorò il parere dell’Irsn, procurandosi un altro consulente (un’azienda privata statunitense). “I nuovi edifici, più sicuri, previsti nella proposta di estensione al 2043 – spiegano gli esperti – non possono ovviare alla vetustà del contenitore del reattore in cemento (vessel) che, sottodimensionato già all’origine, ha anche subito finora quasi 50 anni di corrosione”.
Gli altri nodi irrisolti – Resta poi irrisolto il problema del deposito definitivo del materiale radioattivo ad alta intensità, cioè le barre di uranio attualmente giacenti in una piscina nei pressi della centrale, che costituiscono un altro rischio da valutare, dato che la Slovenia non ha ancora risolto il problema e tende a scaricarlo alla vicina Croazia, proprietaria di metà delle scorie prodotte dalla centrale. “I documenti del gestore della centrale omettono dati recenti e i risultati degli stress test e della ricerca” spiega Reinhard Uhrig, responsabile delle campagne sull’energia e il nucleare di Global 2000. Di fatto, come racconta Tomislav Tkalec dell’associazione slovena Focus “all’inizio la parte slovena intendeva prolungare l’esercizio della centrale senza condurre una valutazione di impatto ambientale”. L’associazione ha fatto ricorso e il Tribunale amministrativo, ha sentenziato che devono eseguire una valutazione di impatto ambientale. Il procedimento è in corso, ma con notevole ritardo. La settimana scorsa è stata annullata la gara per la scelta dell’esecutore dei lavori di costruzione del deposito di scorie radioattive a bassa e media intensità, perché tutte le offerte erano troppo alte. “Nel Fondo per il decommissioning della centrale di Krško in questo momento ci sono poco più di 200 milioni di euro, che, aggiunge, non bastano neppure per il deposito di scorie a bassa e media intensità”. I costi maggiori però sono legati al decommissioning e al deposito per i rifiuti radioattivi ad alta intensità: “Tenendo conto delle esperienze all’estero, servirà più di un miliardo di euro”.