Gli elettori sono chiamati alle urne in un clima di grande incertezza. E se fino a due settimane fa il presidente uscente era più che favorito, il balzo della leader del Rassemblement National scardina tutte le previsioni. La sinistra senza candidato unitario prova a ricompattarsi per il voto utile. L'unica certezza è la crisi nera dei partiti storici (Les Republicains e Socialisti). Ma tutto dipenderà dall'affluenza (che potrebbe crollare sotto la soglia record del 2002)
Tutto (o quasi) Emmanuel Macron avrebbe potuto prevedere, salvo che si sarebbe giocato l’elezione per un nuovo mandato in tempo di guerra. E per di più con una rimonta last minute di Marine Le Pen, rimasta in sordina fino a due settimane prima. La Francia va al voto per il primo turno delle elezioni presidenziali e lo fa in tempi eccezionali. I fattori destinati a influenzare un elettorato che ha sempre meno voglia di votare sono tanti: la crisi internazionale, gli effetti economici sulla vita quotidiana (l’energia, il potere d’acquisto, le tasse) e gli strascichi di una pandemia di Covid tutt’altro che conclusa. Fino a due settimane fa, in pochi avevano dubbi sul risultato: per il leader di En Marche, era la convinzione di tanti, la rielezione sarebbe stata praticamente una passeggiata. Negli ultimi 20 giorni i sondaggi hanno rivelato una crescita costante dell’avversaria e, all’improvviso, si è riaperta la partita. Ma soprattutto nei palazzi del potere è cominciato a diffondersi il terrore di quello che fino a poco prima era “impensabile”: vedere l’estrema destra all’Eliseo nel bel mezzo di uno dei terremoti più grandi dalla nascita dell’Unione europea. Il quadro è complesso, perché pieno di variabili e soprattutto frammentato: a sinistra si è arrivati praticamente all’atomizzazione, senza avere un candidato capace di rappresentare davvero le forti spinte dal basso (dall’ecologia al femminismo) e alla fine e incarnare il “voto utile” sarà il leader della sinistra radicale Jean-Luc Mélenchon; a destra, la discesa in campo di un estremista come Éric Zemmour è riuscito nell’impresa finale di “dediabolizzare” la leader del Rassemblement national. Senza dimenticare che la figura del centrista (e ormai sempre più a destra) Macron ha mangiato tutto lo spazio rimasto alla destra “moderata” di Valerie Pecresse. A vincere però, rischia di essere ancora una volta l’astensione: la Francia dei gilet gialli e delle richieste di mobilitazione politica sempre più forti, non trova leader capaci di rispondere alle domande dal basso. E il risultato è, di nuovo, lo scollamento tra chi comanda e la sua base elettorale.
Cosa dicono i sondaggi e l’incognita astensione – Secondo l’analisi fatta da Politico, che aggrega i vari sondaggi usciti negli ultimi mesi, Macron ha iniziato a crescere nelle intenzioni di voto dopo l’invasione della Russia. E ha raggiunto un massimo (30% contro il 18% di Le Pen e il 12% di Mélenchon) intorno al 15 marzo. Da metà dello scorso mese in poi però, la tendenza si è invertita: mentre il presidente calava, a crescere è stata la sfidante: l’8 aprile, Macron era dato al 26,5% contro il 22,5 della candidata del Rassemblement national e il 17,5 del leader della France Insoumise. Secondo le rilevazioni tra il 2-4 aprile fatte da Ipsos per le Monde, anche al secondo turno ci sarebbe un riavvicinamento: Macron è dato al 51% contro il 49% di Le Pen, mentre tre settimane fa il distacco era 59-41%. Dietro: Zemmour al 9% (dopo essere stato al 15 a lungo); Pecresse al 8,5%; il verde Yannick Jadot al 5%. Gli altri sotto il 5, con la socialista Anne Hidalgo addirittura al 2. Sono rilevazioni che tengono con il fiato sospeso la Francia: e se le previsioni dei mesi scorsi che blindavano Macron si ribaltassero? Possibile che nessun dato, solo 15 giorni fa, potesse anticipare il fenomeno? Proprio i sondaggi sono stati al centro delle polemiche durante la campagna elettorale. A fine ottobre il giornale Ouest-France, il più letto a livello regionale, ha annunciato che non li avrebbe più pubblicati né commentati perché “ingabbiano” il dibattito politico presentandosi come “una sola verità”. Che molto spesso, era l’accusa, non rispecchia quello che succede sul territorio. In pochi hanno seguito la provocazione, ma è solo uno dei tanti segnali di un malessere: con tassi di astensione molto alti, le rilevazioni dei sondaggi rischiano di essere ancora meno affidabili. Due i dati da tenere presente infatti, prima di qualsiasi analisi: alle Regionali di giugno 2021 il tasso di chi non è andato a votare ha toccato la cifra record del 66,71%, superando il 56% delle Municipali di marzo 2020. Non sono certo paragonabili all’appuntamento delle presidenziali, ma sono comunque campanelli d’allarme che da mesi allarmano i partiti. Nel 2017, il tasso di astensione fu del 22,2%. Mentre il record per un primo turno è del 2002 (28,4%). La previsione per questa tornata? Si potrebbe arrivare, dicono gli analisti, a toccare la soglia del 30%. Infine, un dato su tutti da non dimenticare: più del 40%, rileva Ipsos, di chi ha meno di 35 anni non è sicuro di andare a votare.
La rimonta di Marine Le Pen. E il vantaggio di avere un candidato più estremista di lei – “I francesi non credono più al lupo mannaro”. La frase è di Marine Le Pen e riassume il senso di tutti gli ultimi giorni di campagna. La leader del Rassemblement National (il temuto Front National del passato) si presenta per la terza volta alle elezioni presidenziali e mai come questa si gioca il tutto e per tutto. E non basterà gridare “al lupo” per convincere gli elettori a mobilitarsi contro di lei. Cosa è cambiato? Ad aiutarla più di ogni altra cosa è stata la variabile che invece avrebbe dovuto penalizzarla, ovvero la discesa in campo di un candidato più estremista e meno presentabile di lei: il giornalista Éric Zemmour. Per settimane ha monopolizzato l’attenzione a destra, salvo poi sgonfiarsi piano piano che passavano i mesi sotto il peso delle sue stesse sparate. Condannato due volte per “incitazione all’odio razziale”, propone un ministero per la Re-immigrazione ed è sostenitore della teoria del Grand remplacement, la presunta sostituzione etnica per cui la popolazione islamica starebbe per prendere “il posto di quella francese”. La sua sola presenza è bastata per spostare Marine Le Pen verso il campo dei moderati e completare la sua tanto agognata “dediabolizzazione”. Al suo cospetto, Le Pen è apparsa con tratti sempre più accettabili. Così mentre il giornalista definiva Putin da condannare per l’invasione dell’Ucraina, ma comunque un “patriota”, Le Pen correva a bruciare i volantini elettorali in cui compariva la sua foto a fianco del leader russo. Un gesto sufficiente, almeno una parte dell’elettorato, per far dimenticare la sua visita al Cremlino nel 2017 e i finanziamenti dei creditori russi. Attenzione però a non farsi confondere: se l’immagine è stata rinfrescata e addolcita, molto meno restyling ha subito il programma elettorale. Certo non promuove più l’uscita dalla moneta unica, ma chiede il primato della legge francese su quella europea e punta ancora su immigrazione e sicurezza: promette, ad esempio, di inserire “la priorità nazionale” in Costituzione, previo referendum, perché chi ha la nazionalità francese abbia precedenza su alloggi e lavoro. Ma soprattutto si è concentrata sulla tutela del “potere d’acquisto” e quindi contro l’aumento di tasse e prezzi. A destra la campagna è stata occupata dalla sfida Le Pen-Zemmour e poco è rimasto per Valerie Pecresse, arrivata alla testa dei Republicains tra grandi entusiasmi per rilanciare il partito. Quel successo iniziale è praticamente svanito e alla fine ha tenuto banco la sua lite con Nicolas Sarkozy, che ha disertato l’ultimo comizio ed è stato fischiato dalla sala. Insomma, materiale per faide interne che non la porteranno molto lontano.
Il presidente favorito che ha “snobbato” la campagna elettorale – Degli ultimi giorni di campagna elettorale di Emmanuel Macron, scegliamo una foto. Anzi una serie: sono gli scatti, diffusi dal profilo dell’Eliseo a metà marzo, che lo ritraggono al lavoro di domenica sera. A colpire è l’aspetto: barba lunga di qualche giorno e felpa con il logo dei paracadutisti francesi. L’intento è stato subito chiaro: imitare il presidente ucraino Zelensky (dall’inizio della guerra in tenuta militare) e ribadire l’eccezionalità dei tempi. E quindi, del suo impegno. L’effetto però non è stato quello sperato e, certo non solo per le foto: il 17 marzo ha presentato il suo programma elettorale, con tanto di annunci allarmati sul futuro di “una guerra ad alta intensità” e da lì in poi è iniziato il calo nei sondaggi. Al di là degli effetti, quegli scatti raccontano tanto. “Macron ha scelto di fare, per più tempo possibile, il presidente, piuttosto che il candidato“, spiega il sociologo Yves Sintomer a ilfattoquotidiano.it. Quindi ha fatto un solo comizio, ha disertato tutti i confronti tv e si è concentrato sul suo ruolo alla guida del consiglio europeo. Si è posto, all’interno e all’esterno, come il nuovo leader Ue e il candidato per riempire il vuoto lasciato da Angela Merkel. Intanto però, l’attenzione per la guerra calava fisiologicamente e gli altri hanno continuato a fare campagna. Così ad esempio, ha subito lo scandalo delle consulenze McKinsey, emerso da un report del Senato: oltre un miliardo è andato alla società di consulenza americana (solo nel 2021) ed è stata aperta un’inchiesta per frode fiscale. In generale, il bilancio della sua presidenza, percepita sempre più a destra, è complesso perché travolto da continue emergenze (gilet gialli, Covid, guerra). Secondo il collettivo “Lui president” che ha analizzato circa 400 promesse fatte all’inizio del mandato, ne avrebbe mantenute circa 171: in particolare sul fronte economico\fiscale e e su quello sociale\lavorativo. Più dura l’analisi di Transparency France che dichiara “debole” la lotta anticorruzione di quello che dagli oppositori viene descritto come “il presidente delle élite”. Tanto che, secondo la ong, per Macron la lotta alla corruzione non è un tema. Di sicuro negli ultimi 5 anni poco o niente ha fatto per scalfire l’immagine di presidente dei “ricchi” e proprio questo lo mette in opposizione con l’asse Le Pen-Mélenchon che invece guarda al voto popolare. Le proposte più importanti della sua campagna elettorale lampo sono state altre. Due tra tante: il rilancio del “nucleare” perché “la Francia riprende in mano il suo destino energetico” e l’aumento dell’età pensionabile a 65 anni. Una riforma, quest’ultima, già travolta da polemiche e manifestazioni di piazza. E che però Macron insiste nel rivendicare.
La sinistra con troppi candidati e nessuna alleanza – La situazione a sinistra era così desolante che a prendere in mano la situazione ci ha provato un gruppo di giovani elettori. A gennaio, dopo settimane di mobilitazione, hanno organizzato “le primarie popolari” e hanno fatto votare online 400mila persone per un candidato unitario. Peccato però che a mettersi di traverso sono stati i leader, tutti tranne poche eccezioni (ad esempio l’ex ministra Christian Taubira), si sono rifiutati di accettare il risultato della competizione e hanno gettato al vento l’unica opportunità di andare uniti. Le motivazioni erano diverse, ma soprattutto tutti temevano i rischi: nessuno era disposto a fare un passo indietro in caso di sconfitta. Così oggi la sinistra francese si ritrova con una pletora di candidati e poche chance di vittoria. Chi è messo meglio di tutti è Jean-Luc Mélenchon che gode dei frutti delle mobilitazioni della sua France Insoumise sui territori, ma paga la politica di non allineamento a livello internazionale e le accuse di essere filo-russo. Si presenta però come il voto utile a sinistra, perché, dice e dicono i sondaggi, l’unico capace di arrivare al secondo turno. E proprio questa strategia penalizza i Verdi francesi, nonostante le grandi aspettative: alle Europee 2019 sono risultati il terzo partito in Francia con quasi il 13 per cento dei consensi e alle Municipali 2020 hanno vinto città importanti come Strasburgo, Lione e Bordeaux. Quello doveva essere il punto di partenza per le presidenziali, ma in una corsa però molto personalistica come quella per le presidenziali, il candidato Yannick Jadot fatica a imporsi e a trascinare i suoi. Dalla loro hanno la forte spinta green dell’elettorato e quindi un futuro che li dà comunque in crescita. Male, se non malissimo la situazione dei Socialisti: la sindaca di Parigi Anne Hidalgo è data, se va bene, al 2 per cento e, nonostante tutto, non ha mai pensato di ritirarsi. Potrebbe fare meglio di lei anche il candidato del Partito comunista Fabien Roussel: il Pcf ha infatti deciso di correre da solo e non appoggiare Mélenchon come nelle scorse tornate. E cosa ne è stato della Primaire Populaire? La prima classificata Taubira si è ritirata dalla corsa e il movimento, invece di sostenere il secondo (ovvero Jadot), ha scelto di optare per un voto utile per Mélenchon. “On s’est plantés, on est désolés”, hanno confessato. “Scusateci, abbiamo sbagliato”. Lo sforzo era lodevole, ma il risultato ha lasciato ancora più delusi per strada. Insomma, all’apertura delle urne restano soprattutto le incognite: gli elettori a sinistra si compatteranno, nonostante tutto, per il voto utile? E al secondo turno sono pronti a scegliere Macron se dall’altra parte ci fosse Marine Le Pen? Nessuno può dirlo con certezza, anche perché, “i francesi non credono più al lupo”. E se decidono di andare alle urne, tutto può succedere. Anche l’impensabile.