FATTO FOOTBALL CLUB - Come sia possibile, nel 2022, in un campionato professionistico dello sport più importante del Paese, che una squadra possa partecipare a un torneo senza avere la garanzia di essere in grado di finirlo? I casi sono due. O le norme che regolano le licenze nazionali e le iscrizioni al campionato non sono state applicate a dovere; oppure se il Catania era perfettamente in regola pur non avendo un euro – e non c’è ragione di dubitare dell’operato degli organi di controllo –, allora vuol dire che semplicemente le regole non funzionano. In un caso o nell’altro, il sistema fa acqua. Anzi, continua a fare acqua.
Avete mai visto un campionato dove una squadra viene esclusa a quattro giornate dal termine, dopo aver giocato tutto il girone d’andata e quasi tutto il ritorno con una società fallita? E così l’ultima in classifica, virtualmente già retrocessa, per miracolo è di nuovo in gioco, la seconda si ritrova all’improvviso quarta, i risultati del campo vengono cancellati e tutta la graduatoria è stravolta a tavolino. Se vi sembra impossibile, non conoscete la Serie C italiana. La fine del Catania calcio è una tragicommedia. Ci sarebbe quasi da ridere, se non venisse da piangere per i tifosi siciliani e un po’ tutto il pallone italiano. Sparisce un’altra gloriosa società del nostro calcio, e non è la prima volta, è successo a tante piazze, da Napoli a Firenze, passando per Bari e Venezia. Sparisce però a campionato in corso, questa è la cosa più grave, e anche qui non è la prima volta.
17 febbraio 2019, Cuneo-Pro Piacenza 20-0, la “partita della vergogna”: soltanto tre anni fa, la Serie C sembrava aver toccato il punto più basso di sempre. Impossibile scavare oltre. Invece tre anni dopo la storia si ripete. Stavolta ci siamo risparmiati l’imbarazzo dei ragazzini mandati allo sbaraglio, ma se i ridicoli comunicati di Lega Pro e Figc provano a salvare la forma, la sostanza è anche peggio. Perché quello del Catania è un disastro annunciato. Lo sapevano tutti che gli etnei avrebbero potuto non finire la stagione, non da oggi, e neppure da ieri, ma praticamente da ottobre. E nessuno ha fatto nulla. Lo hanno lasciato giocare come se niente fosse, anche partite discrete, con i gol in attacco del giovane Luca Moro (forse il talento più promettente dell’intera categoria). Per arrivare poi a staccare la spina a pochi metri dal traguardo.
È da anni che il Catania era in agonia: prima la doppia retrocessione dalla A alla C tra il 2014 e il 2015, poi i guai finanziari dell’ex patron Pulvirenti e l’accumularsi dei debiti, quindi il tentativo di salvataggio mai decollato del gruppo Sigi, una cordata non troppo ben assortita. In estate la squadra era stata iscritta per il rotto della cuffia al campionato, ma senza soldi a dicembre il tribunale aveva dichiarato il fallimento e l’esercizio provvisorio. Le ultime speranze si sono spente col venir meno della proposta d’acquisto di Benedetto Mancini, imprenditore già noto per i suoi trascorsi non proprio felici nel pallone (Rieti, Latina). E se è vero – come ha tenuto a chiarire il diretto interessato – che non è mai stato inibito dalla Figc, bisognerebbe anche domandarsi come mai in questo genere di situazioni disperate ricompaiono sempre questo genere di personaggi.
Il vero nodo della vicenda, comunque, non è quello che succede ora, un epilogo indecoroso, inevitabile, annunciato. Ma quello che è successo la scorsa estate: come sia possibile, nel 2022, in un campionato professionistico dello sport più importante del Paese, che una squadra possa partecipare a un torneo senza avere la garanzia di essere in grado di finirlo. Qui i casi sono due. O le norme che regolano le licenze nazionali e le iscrizioni al campionato non sono state applicate a dovere, facendo figli e figliastri, perché viene anche il sospetto che nei confronti di una piazza meno prestigiosa non ci sarebbe stata la stessa comprensione. Oppure se il Catania era perfettamente in regola pur non avendo un euro – e non c’è ragione di dubitare dell’operato degli organi di controllo –, allora vuol dire che semplicemente le regole non funzionano. In un caso o nell’altro, il sistema fa acqua. Anzi, continua a fare acqua.
“È una situazione che non avrei mai voluto vivere”, dice il presidente della Serie C, Francesco Ghirelli. Sono parole che suonano come lacrime di coccodrillo, perché questa situazione l’abbiamo già vissuta col Pro Piacenza, senza dimenticare i casi del Rieti, oppure del Pisa in Serie B. In tutti questi anni sono cambiate le regole ma evidentemente la situazione non è stata risolta. È un po’ la stessa storia del disastro della nazionale: i dirigenti che oggi promettono rivoluzioni sono gli stessi che hanno governato il pallone negli ultimi 20 anni, la volta buona per la riforma è sempre la prossima. Per questo la loro credibilità è pari a zero. In fondo, è dal fallimento del Parma nel 2015 che si ripropone la stessa storia. Allora, la Serie A pagò di tasca sua per far finire il campionato agli emiliani, salvare le apparenze (e soprattutto i ricavi dei diritti tv). Stavolta invece la Lega Pro ha rispedito al mittente la richiesta di un contributo da parte del tribunale: perché si sarebbe creato un precedente inammissibile, vero, ma forse perché non aveva lo stesso interesse a far finire il torneo al Catania, come se fosse più un problema dei siciliani che suo. Un altro errore di valutazione. Per il Catania, in fondo, non cambia nulla: oggi, o fra tre settimane, il fallimento sarebbe arrivato comunque; la passione della città non muore, il calcio a Catania rinascerà. È la Serie C, il pallone italiano e i suoi governanti che perdono la faccia.