di Paolo Di Falco

“Preferiamo la pace o il condizionatore acceso?”. Questa la domanda del Presidente del Consiglio Mario Draghi che in questa settimana è un po’ rimbalzata da per tutto e che ci riguarda direttamente in quanto ci fa schiantare duramente con la realtà.

E’ già passato il 45° giorno di una guerra nata dall’invasione di Putin e che è già stata letta in tutte le forme possibili e inimmaginabili da chi, come il sottoscritto, sta comodamente seduto davanti ad una scrivania mentre in Ucraina si continua a trovare la morte che non sembra lasciare alcuna via di fuga ad uomini che fino a un mese fa erano immersi, come tutti noi, nelle loro vite da cui sono stati costretti ad uscire bruscamente di fronte ad una legge marziale e ad un’arma, imbracciata forse per la prima volta, nell’assurda logica di uccidere per non esseri uccisi e, dall’altro lato, a uomini anche loro mandati al fronte per massacrare quelli che in appena un mese si erano trasformati in nazisti e che improvvisamente avevano bisogno di un liberatore che nella sua operazione speciale dispensa morte per ottenere un territorio non disposto a sottomettersi a quella Russia il cui fantasma continuò ad aleggiare anche dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991.

Uomini quest’ultimi e spesso giovanissimi come quelli che, schierati su diverse sedie a rotelle per via delle loro gambe lasciate al fronte e dietro volti di pietra pieni di tristezza, sono stati premiati da un generale russo in diretta nazionale con delle medaglie o meglio, parafrasando De Gregori, “con delle lacrime affisse sulla loro pelle” a ricordo di quelle che loro e le loro famiglie hanno già versato e delle tante che continueranno a segnare i volti anche degli altri soldati mandati senza alcuna protezione a scavare inutilmente trincee nella Foresta rossa, ovvero l’area più contaminata del Pianeta che si trova intorno alla centrale nucleare di Chernobyl diretta protagonista del più grande disastro nucleare della storia, e che forse avranno appreso o non sanno ancora di avere meno di un anno di vita di fronte a loro a causa delle radiazioni troppo alte a cui sono stati esposti e delle fonti radioattive maneggiate a mani nude.

Morte che non lascia via di scampo neanche a chi prova a fuggire dalle città ucraine martoriate e che sembrano aver assunto l’aspetto di gironi dell’inferno dove, come si è visto dalle foto dei tanti massacri, i corpi che hanno ormai esalato l’ultimo respiro si trovano riversi in mezzo alle strade abbandonati da chi li ha martoriati durante esecuzioni dettate da quella sete di sangue di un uomo che, come diceva Quasimodo, è ancora “quello della pietra e della fionda”.

Morte che non lascia fuori dalla sua spirale neanche i bambini strappando loro la vita attraverso proiettili e missili che si frantumano schiantandosi sulla nuda terra dentro involucri metallici che recano fantasiose scritte come quello diretto sulla stazione di Kramatorsk, nella regione di Donetsk, su cui era stato incisa la scritta: “Per i bambini”. In un’inverosimile realtà dove non si capisca se fosse un riferimento ai bambini russi o a quelli ucraini e quindi, ad una difesa dei primi o ad un attacco verso i secondi, resta la paradossalità di come si possa pensare che una bomba concepita per portare morte possa difendere qualcuno o essere destinata a dei bambini che hanno già visto troppe atrocità.

Quella frase iniziale però, come dicevamo prima, ci pone dinnanzi alla cruda realtà: dopo esserci commossi pigiando sulle immagini terribili e cruente che ci arrivano dall’Ucraina l’emoji con la lacrimuccia su Facebook, dopo aver sfogato tutta la nostra rabbia dietro gli opinionisti dei talk, dopo aver fatto il tifo per la resistenza ucraina o per gli invasori (cosa di per sé assurda se consideriamo che non stiamo guardando un partita o una serie Tv ma ci troviamo di fronte ad una dannata guerra dove i morti aumentano di giorno in giorno), dopo aver sbandierato ai quattro venti e sulle nostre bacheche social sentimenti ed emozioni, dopo tutto questo cosa siamo disposti a fare nel concreto per provare a porre fine alla guerra? Al di fuori della retorica, siamo disposti a rinunciare alle nostre comodità come quella del condizionatore in estate per andare in direzione di un’indipendenza dal 40% del gas che importiamo dalla Russia e con cui produciamo circa il 50% della nostra elettricità?

In un contesto di ipocrisia totale dove, di fronte i tanti massacri di cui si sono macchiate le forze russe continuiamo a importare gas dalla Russia, siamo disposti ad andare oltre l’inutile tifoseria da stadio e cercare di interrompere quei flussi di denaro che continuano ad alimentare la guerra di Putin?

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