Sono passati 35 anni da quella mattina del 1987 in cui Primo Levi si tolse la vita gettandosi nella tromba delle scale del palazzo di corso Re Umberto (so che la tesi del suicidio viene da taluni contestata, ma lo sconforto che confidava a noi visitatori, non solo per ciò che gli era toccato subire da giovane ma anche per la fatica del vivere quotidiano alla soglia dei 70 anni, in me non lasciarono dubbi). Primo Levi avvertiva fortissimo il peso della fatica di testimoniare che pure aveva scelto di caricarsi sulla spalle appena rientrato a Torino, dopo essere scampato alle camere a gas di Auschwitz. Era così rigoroso con sé stesso da non autorizzarsi neppure una piccola dose di vanità per il successo dei suoi libri.
L’ultimo, pubblicato meno di un anno prima della morte, I sommersi e i salvati, viene considerato giustamente un caposaldo dell’interpretazione delle dinamiche interne all’universo concentrazionario. Il suo titolo, e la nozione di “zona grigia”, sono diventati categorie imprescindibili, non solo nel vocabolario degli antropologi e dei sociologi. Rifletteva quarant’anni dopo sull’esperienza vissuta, mettendo a frutto quel tanto di distacco che la vita gli aveva potuto consentire. Ma avvertiva talmente la responsabilità di investire nel modo giusto il prestigio acquisito da esserne angosciato e mostrarsi titubante agli amici cui chiedeva di leggere in anticipo le bozze. Perfino a un conoscente giovane e inesperto come me chiese di essere severo, di segnalargli eventuali perplessità, ché lui avrebbe fatto ancora in tempo a correggere il testo. Ci fu subito chiaro che si trattava di un’opera magistrale. Capimmo solo dopo che era anche un testamento.
Primo Levi, rivelandosi grande scrittore e acuto pensatore, fornì al mondo cognizione di atrocità che all’epoca i carnefici si ritenevano -con buone chances – di riuscire a far passare sotto silenzio. Nel mondo contemporaneo ciò è reso molto più difficile dalla rivoluzione digitale, dalle immagini e dalle testimonianze che viaggiano in tempo reale. E’ un cambiamento d’epoca. Ma di fronte alle stragi di civili perpetrate nella guerra di Ucraina – nonostante il cambiamento d’epoca, nonostante il surplus d’informazione, prezioso antidoto alla congiura del silenzio che incombeva sui campi di sterminio nazisti – di nuovo assistiamo al riproporsi di scetticismo, rimozione, fastidio, fatica a solidarizzare con le vittime e a raccoglierne la disperata denuncia.
Per questo ci torna prezioso il ricordo di Primo Levi. Che già in Se questo è un uomo raccontava il sogno ricorrente che funestava le notti dei prigionieri nelle baracche di Birkenau. Loro erano tornati a casa, raccontavano quel che gli era successo, ma nessuno gli credeva.