Il caporalato nel nord-ovest c’è: cade un altro alibi. L’11 aprile il Tribunale di Cuneo ha giudicato provato il reato di sfruttamento della manodopera nelle campagne del cuneese, condannando a pene severe sia il caporale sia gli imprenditori che si sono avvalsi di quelle persone sfruttate. E’ la prima condanna del genere nel nord-ovest. E’ una sentenza di primo grado e quindi preferisco non soffermarmi sulle identità dei condannati, che restano innocenti fino alla eventuale sentenza definitiva di condanna. Mi premono però alcune considerazioni.
I fatti portati all’attenzione del Tribunale di Cuneo devono servire a ricordarci che quotidianamente nel nostro Paese si combatte una guerra per il profitto illecito nella quale i forti fanno ciò che vogliono e i deboli fanno ciò che possono per sopravvivere. Questa guerra per il profitto illecito si combatte ovunque, non soltanto nel sud Italia: vale per il caporalato quello che vale per il crimine suo parente stretto, e cioè la mafia. Non ci sono più da tempo recinti geografici che consentano a qualcuno di percepirsi (ingenuamente o meno) estraneo a questi meccanismi. I “recinti” geografici sono saltati da decenni e non soltanto per la capacità dei criminali di colonizzare territori sempre più vasti a discapito della “brava gente”, ma anche per l’avidità di tanta “brava gente” che ha imparato a considerare certe attività criminali come ingredienti utili ad affrontare la competizione nel libero mercato.
Il parallelo tra il crimine del caporalato e quello mafioso è tutt’altro che forzato: in entrambi i casi siamo di fronte a organizzazioni che si arricchiscono sulla pelle di qualcuno, facendo pesare la propria capacità di intimidazione. Il caporalato è una sottospecie di estorsione. I fatti portati all’attenzione del Tribunale di Cuneo ci restituiscono poi l’importanza della denuncia di chi trova la forza di ribellarsi al ricatto del più forte: il processo è stato possibile anche grazie al coraggio di Koanda Moumouni che ha deciso di puntare il dito contro gli sfruttatori. Questo nome è giusto farlo, perché non deve essere dimenticato e perché lo Stato deve prendersene cura esattamente come si impegna a fare per i testimoni di giustizia che denunciano la mafia.
Infine il processo celebrato a Cuneo ci dice che la politica in democrazia può ancora servire da detonatore contro l’arroganza del potere criminale: l’articolo del Codice Penale che aveva introdotto (finalmente!) il reato di intermediazione illecita di manodopera, il 603 bis, votato dal Parlamento nel 2011, aveva certamente rappresentato un passo avanti, ma aveva immediatamente manifestato una insostenibile inadeguatezza. Quell’articolo infatti colpiva soltanto il responsabile della intermediazione illecita, cioè il cosiddetto “caporale”, senza considerare ugualmente responsabile l’imprenditore, più propriamente detto “padrone”, che di quella intermediazione si avvantaggia. Ma può esistere il “caporale” senza un “padrone”?
Dopo una battaglia parlamentare non facile, il Parlamento con la legge 199 del 2016 è tornato su quella norma, modificandola in due punti essenziali. Il primo: considerare responsabili della condotta criminale tanto il “caporale” quanto il “padrone” che si avvalga di quella intermediazione. Insomma: è ladro chi ruba e chi tiene il sacco! Il secondo: lo sfruttamento si considera realizzato quando risulti provato che caporale e padrone abbiano approfittato della condizione di bisogno del bracciante, anche se ciò non sia stato condito da minacce o violenza.
Minacce e violenza sono considerate ora una aggravante della condotta. Una rivoluzione copernicana che fissa un punto irrinunciabile: la violenza sta in sé nell’approfittare della condizione di bisogno per estorcere prestazioni disumane. Una riforma degna del comma 2 dell’articolo 3 della nostra Costituzione.
Politica, leggi, giudici, tribunali, associazioni e sindacati in democrazia possono eccome fare la differenza tra paura e libertà. Lo ha scritto bene in un post su Facebook l’avvocata Valentina Sandroni, che rappresenta nel processo la Flai-Cgil: “Questo processo è nato dall’ascolto, dal lavoro quotidiano agli sportelli, nelle strade, alle code per distribuire coperte e beni di prima necessità. Gli operatori che ogni giorno lavorano a fianco dei lavoratori africani per sostenere la loro fragile condizione, che si mettono a disposizione per le loro piccole e fondamentali necessità, che con queste persone parlano e poco a poco le conoscono e ne guadagnano la fiducia, avevano compreso da tempo l’esistenza di una vasta rete di sfruttamento. Un passo alla volta, sono riusciti ad avvicinare alcune situazioni ‘critiche’ fino a incontrare alcuni lavoratori che, un colloquio alla volta, hanno deciso di denunciare dando origine a questa svolta storica, che ha trascinato il coraggio alla testimonianza di altri, in questo processo e in altri che sicuramente verranno”.