Non so se è il caso di dirlo, perché il rischio di finire in una delle liste dei cattivi fatte da Riotta è sempre incombente, ma l’idea di acquistare, doppiare e proporre in prima serata la fiction Servant of the people si sta rivelando per La 7 un flop notevole.

Partiamo dall’andamento dell’audience, che, come si sa, non è tutto nella vita, ma qualcosa ci dice. Più di ottocentomila spettatori con il 3,4 per cento la sera dell’esordio, molto atteso; meno di settecentomila con il 3,1 il lunedì successivo. Eppure era un lunedì meno complicato. Nessuna partita di serie A, la fiction di Rai 1 che ha tenuto senza aumentare, Rai 2 e Italia 1 bassissime, Canale 5 con la sua Isola che cattura un pubblico non sovrapponibile, il solo Report, come sempre molto alto, vicino ai due milioni, a fare l’unica concorrenza nell’ambito del pubblico che predilige l’attualità. Insomma, il pubblico non sembra aver gradito molto il prodotto e francamente lo capisco.

Le ragioni della delusione riguardano due caratteri della fiction. Il primo è la fastidiosa sensazione di déja vu a che accompagna tutta la visione. Come è noto, la storia di un comune cittadino che per un caso o un equivoco assume all’improvviso fama o potere non è certo nuova. Ce ne sono vari esempi nel cinema classico americano, in quello europeo e di recente anche nella commedia italiana.

La vicenda dell’insegnante di storia Vasily Petrovych, del suo impensabile e imbarazzante arrivo alla più alta carica dello stato ucraino, delle reazioni dei suoi familiari, dei suoi amici e dei suoi avversari non si discosta da quelle viste in precedenza. Per cui tutto ciò che per il protagonista e i vari personaggi del racconto è motivo di sorpresa, per lo spettatore è invece avvolto nella più totale prevedibilità e, alla lunga, motivo di noia.

La seconda ragione di delusione è il registro della narrazione che non riesce a superare una pericolosa ambiguità. Da un lato la vicenda sembra ben radicata in Ucraina, nella sua società, nelle sue istituzioni, nelle sue dinamiche politiche e sociali. Ma i riferimenti sono troppo generici o forse talvolta incomprensibili per lo straniero, al punto che le battute, i motivi di comicità o di ironia sfuggono e tutto sembra un po’ vago.

Dall’altro lato il racconto potrebbe ambire a rappresentare una parabola universale sui vizi umani: la sopraffazione del prossimo, l’abuso del privilegio, l’insensibilità, la viltà, l’adulazione del potente. Ma questa strada resta bloccata dalla tendenza a costruire situazioni farsesche, da un clima di recita un po’ oratoriale, dalla presenza diffusa di macchiette e di atteggiamenti che, nel nostro paese, hanno un’eco decisamente fantozziana.

Insomma, alla fine una cosa che non è né carne né pesce. Sempre che si possa almeno in queste occasioni usare il né né senza incorrere nelle ire di qualcuno.

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