Il colosso energetico ha siglato un'intesa per un aumento della fornitura annuale di gas naturale liquefatto fino a 3 miliardi di metri cubi. Ma se per giustificare la guerra del gas intrapresa con la Russia il presidente del Consiglio ha messo la pace al di sopra dei "condizionatori accesi", con l'Egitto l'attenzione al rispetto dei diritti umani sembra essere venuta meno
“Preferiamo la pace o il condizionatore acceso? Questa è la domanda che ci dobbiamo porre”. Con una frase breve, semplice, il presidente del Consiglio, Mario Draghi, sembrava aver tracciato la linea del governo (e del Paese) per non piegarsi di fronte alla “vergogna”, come lui stesso l’ha definita, della guerra avviata da Vladimir Putin in Ucraina. Sembrava, perché chi ha immaginato che questa affermazione fosse il preludio a un nuovo ordine di priorità, con i diritti umani al di sopra degli interessi strategici ed economici, si sbagliava.
Lo dimostra, dopo i viaggi del premier e del ministro degli Esteri Di Maio in diversi Paesi per cercare nuovi accordi, tra cui Algeria, Angola, Repubblica del Congo e Qatar, l’ultima intesa firmata da Eni in Egitto, patria di Abdel Fattah al-Sisi, colui che sta ostacolando il processo a carico dei quattro agenti della Nsa accusati del sequestro, le torture e l’omicidio di Giulio Regeni. Lo stesso che guida il Paese che ha tenuto per quasi due anni in carcere Patrick Zaki e che non lo ha ancora scagionato dalle accuse di diffusione di false notizie su Facebook. Lo stesso che continua a portare avanti le purghe contro gli oppositori politici, finiti in carcere a migliaia dal giorno della sua ascesa al potere con un colpo di Stato, nel 2013, e alcuni dei quali deceduti in circostanze a dir poco sospette mentre si trovavano in prigione o in custodia.
Un accordo che ha reso “dubbioso” anche il partner di maggioranza Enrico Letta, che ha ricordato proprio l’ostruzionismo dello Stato nordafricano sull’inchiesta Regeni. Ma nel caso dell’Egitto -che nonostante tutto questo non è mai stato descritto come un Paese al quale contrapporsi, come succede legittimamente con la Russia dell’invasore Vladimir Putin, bensì come un partner strategico nell’area, non solo per i fiorenti accordi commerciali (anche in tema di armamenti) ed energetici in corso, ma anche in ottica “lotta al terrorismo” e per la “stabilizzazione della Libia” – gli standard applicati nei confronti di Mosca sembrano non valere.
Certo, al-Sisi non ha ordinato l’invasione di alcuno Stato indipendente, come invece fatto dal presidente russo, ma le vittime della sua repressione contro le opposizioni in patria continuano ad aumentare ogni anno che passa. Lo stesso vale per altri Paesi ricchi di risorse energetiche che in questo momento fanno comodo mai come prima. Ad esempio l’Arabia Saudita, patria di quel “Rinascimento Arabo” profetizzato da Matteo Renzi che fornisce l’8% del petrolio importato in Italia, nonostante le endemiche violazioni dei diritti umani e le pesanti accuse di responsabilità sull’uccisione del giornalista dissidente del Washington Post, Jamal Khashoggi.
Tutti Paesi con evidenti problemi di violazioni dei diritti umani, tutti guidati da dittature più o meno feroci, tutti partner italiani. Tutti, però, senza un arsenale atomico, a differenza della Russia. Così, almeno, non possono rappresentare una minaccia alla sicurezza nazionale.