Il nostro sogno è sempre stato quello di saper filmare come Mahamat-Saleh Haroun. Ci perdoni per la quasi citazione Nanni Moretti (che dopo Tre Piani una ripassatina a questo film ce la potrebbe dare), ma Una madre, una figlia (Lingui), dal 14 aprile nelle sale italiane grazie ad Academy Two, è uno di quei film dove ogni apparentemente semplice scelta di messa in scena sembra come nascere dal cielo stellato della storia del cinema. La crudezza e l’universalità dei temi (illegalità e immoralità dell’aborto, indipendenza della donna, ruolo impositivo dei precetti islamici) e delle situazioni affrontate nel testo sposta inevitabilmente subito l’attenzione sul contenuto tout court del film, ma è in questa grazia estetica silente, impastata di terra e di sabbia, di muri crepati interrotti da lampi di persiane, finestre e tendaggi azzurri, che il film del ciadiano Haroun respira espressivamente come un capolavoro senza tempo. Nella periferia di N’djamena, in Ciad, vive la trentenne Amina (Achouackh Abakar Soulemane) e la figlia quindicenne Maria (Rihane Khalil Alio). Con loro un cagnetto e una gattina spelacchiati. Amina squarta pneumatici per ricavarne fili di ferro che poi le serviranno per comporre ceste da vendere in strada. Maria, invece, va ancora a scuola, ma la sua prolungata presenza sul letto di casa costringe la madre a capire cos’è successo in classe.
La preside la avvisa della sospensione della ragazza perché scoperta incinta. Situazione irreparabile, sempre che non si voglia tenere il bambino, in quando in uno stato confessionale musulmano come il Ciad, e per delle credenti come le due donne, l’aborto è ovviamente illegale ed è altrettanto e forse di più uno stigma sociale impossibile da sanare. Così se la prima reazione tra madre e figlia è di fuga e distacco, le due donne prima tenteranno ogni via parallela e fuorilegge per attuare l’aborto, infine giunte alle strette, subita anche la retata della polizia in una clinica clandestina che si fa ovviamente pagare per gli interventi, Amina e Maria dismettono clamorosamente i ruoli da donne socialmente riconoscibili e sottomesse quali sono in quell’angolo di mondo sudato e desertico per vivere un presente e un futuro indipendenti. Senza arrivare allo spoiler (gli ultimi otto minuti di film sono una specie di thriller) possiamo accennare al fatto che Amina rinuncia al velo e si mette a fumare. Una madre, una figlia, in originale Lingui che significa pressappoco “legami sacri”, ripone in un senso di giustizia femminile inesausto il suo obiettivo primario, ma è anche una lezione di cinema sicuramente non con mezzi produttivi esagerati ma dall’altissima resa.
La regia di Haroun rimugina una tradizionalità apparente quando invece palpita gradualmente di una profondità di campo ipermoderna e di un tempo interno del racconto che si stabilizza attorno alla perfezione. L’uso alternato di primissimi piani per le protagoniste e di campi lunghi di fondali urbani, di carrellate ampie e impetuose come di fissità nei dettagli, addirittura di accennati e vibranti piani sequenza, rendono Una madre, una figlia una sorta di saggio su come si impastano gli ingredienti basilari del cinema: tecnica, cuore ed etica. La Soulemaine e la Alio svettano in intensità e potenza in mezzo ad un concentrato brulicante e insignificante di uomini che alcun collettivo femminista occidentale è mai riuscito narrativamente a creare. Ripetiamo ancora una volta: film imperdibile.