L'opera del 60enne Mahamat Saleh Haroun ripone in un senso di giustizia femminile inesausto il suo obiettivo primario, ma è anche una lezione basilare di cinema: tecnica, cuore ed etica
Il nostro sogno è sempre stato quello di saper filmare come Mahamat-Saleh Haroun. Ci perdoni per la quasi citazione Nanni Moretti (che dopo Tre Piani una ripassatina a questo film ce la potrebbe dare), ma Una madre, una figlia (Lingui), dal 14 aprile nelle sale italiane grazie ad Academy Two, è uno di quei film dove ogni apparentemente semplice scelta di messa in scena sembra come nascere dal cielo stellato della storia del cinema. La crudezza e l’universalità dei temi (illegalità e immoralità dell’aborto, indipendenza della donna, ruolo impositivo dei precetti islamici) e delle situazioni affrontate nel testo sposta inevitabilmente subito l’attenzione sul contenuto tout court del film, ma è in questa grazia estetica silente, impastata di terra e di sabbia, di muri crepati interrotti da lampi di persiane, finestre e tendaggi azzurri, che il film del ciadiano Haroun respira espressivamente come un capolavoro senza tempo. Nella periferia di N’djamena, in Ciad, vive la trentenne Amina (Achouackh Abakar Soulemane) e la figlia quindicenne Maria (Rihane Khalil Alio). Con loro un cagnetto e una gattina spelacchiati. Amina squarta pneumatici per ricavarne fili di ferro che poi le serviranno per comporre ceste da vendere in strada. Maria, invece, va ancora a scuola, ma la sua prolungata presenza sul letto di casa costringe la madre a capire cos’è successo in classe.
La regia di Haroun rimugina una tradizionalità apparente quando invece palpita gradualmente di una profondità di campo ipermoderna e di un tempo interno del racconto che si stabilizza attorno alla perfezione. L’uso alternato di primissimi piani per le protagoniste e di campi lunghi di fondali urbani, di carrellate ampie e impetuose come di fissità nei dettagli, addirittura di accennati e vibranti piani sequenza, rendono Una madre, una figlia una sorta di saggio su come si impastano gli ingredienti basilari del cinema: tecnica, cuore ed etica. La Soulemaine e la Alio svettano in intensità e potenza in mezzo ad un concentrato brulicante e insignificante di uomini che alcun collettivo femminista occidentale è mai riuscito narrativamente a creare. Ripetiamo ancora una volta: film imperdibile.