La guerra in Ucraina e la pandemia da Covid-19 mostrano, oltre all’orrore di guerre e malattie, la precarietà di uno stato di benessere e sicurezza che davamo per scontato e, anche, le conseguenze della globalizzazione. Il nostro impatto sulla natura è globale: non basta trasferire lontano le produzioni climalteranti, nel medio termine i loro effetti si globalizzano e arrivano a noi. L’ecologia è globale. E l’economia? Ci accorgiamo, con la crisi Ucraina, che la nostra produzione di grano non soddisfa i nostri bisogni. Abbiamo trovato più conveniente abbandonare certe produzioni, trasferendole in paesi dove la manodopera costa poco e dove le leggi che difendono l’ambiente e i diritti umani non esistono o non sono rispettate. E questo non vale solo per il cibo. Magari continuiamo a progettare le nostre macchine, ma le facciamo fare a “loro”. Anche la moda ha delocalizzato. Chiudono le fabbriche, si trasferiscono le produzioni, e poi si riporta in Italia quel che abbiamo progettato, per venderlo. Di solito a prezzi gonfiati rispetto ai costi di produzione.
L’energia la producevamo noi, con l’idroelettrico, ma poi abbiamo trovato più conveniente comprarla dalla Francia (le centrali nucleari ne producono più del necessario e il surplus viene venduto a prezzi convenienti). Importiamo gas, petrolio e carbone. Dipendiamo da altri paesi e siamo ostaggio dei fornitori. La lezione avrebbe dovuto essere chiara già dai tempi della crisi del petrolio, negli anni 70, quando gli sceicchi decisero di alzare il prezzo del combustibile.
Ora dipendiamo dall’estero per la manodopera, per i combustibili e per il cibo. E c’è un’altra cosa che quei paesi possono fare. Possono imparare e impadronirsi del nostro “sapere”, per poi rivendercelo. Quando ero ragazzo, negli anni Sessanta, l’Italia era uno dei maggiori produttori di motociclette. Un mio compagno di liceo comprò una delle prime Honda che arrivarono in Italia. Faceva ridere, ed era una brutta copia delle nostre moto. Dopo pochissimi anni arrivarono la Kawasaki tre cilindri, e la Honda quattro cilindri. Il Kawa, così la chiamavamo, arrivava da 0 a 100 km all’ora in quattro secondi. Le grandi moto italiane gradualmente scomparvero. Qualcuna resiste ma i giapponesi ci hanno surclassato. E lo hanno fatto anche con le auto. E ora ci sono i coreani, e gli indiani. Noi arranchiamo.
Molto Made in Italy è fatto altrove. Ma quell’altrove ha imparato e ora ci vende le sue produzioni. In Italia i negozi “indigeni” chiudono e aprono quelli che vendono roba cinese. Assomiglia alla nostra, ma costa dieci volte meno. D’altronde, le fabbriche chiudono chi resta senza lavoro non si può permettere di comprare italiano, compra cinese. Memorabile la puntata di Report che mostrava i piumini prodotti al costo di 40 euro venduti in negozio a 1.000. Dal cinese costano 80…
Quello che non abbiamo delocalizzato lo abbiamo privatizzato. Aspettandoci che la gestione privata avrebbe fatto gli interessi dei consumatori, guarendo le storture della gestione pubblica. Con le autostrade, o l’acciaio, abbiamo visto che non è stato così, e ora stiamo pensando di nazionalizzare asset strategici che devono essere sotto il controllo statale, come l’energia, le comunicazioni, e tante altre cose.
Ci abbiamo provato, e non ha funzionato.
Il risultato di queste politiche è che, da noi più che in ogni altro paese occidentale, il lavoro è pagato sempre meno. E siamo stati talmente furbi da aver delocalizzato anche le progettazioni. I nostri laureati, quelli che potrebbero progettare, non trovano lavoro in Italia e lo trovano all’estero. Saranno scemi a prenderli? Siamo noi i furbi, a formarli e a farli andar via? I ragazzi pedalano felici a portare pizze. Fatte con grano ucraino. Ma è davvero questo che abbiamo da offrire alle generazioni future? Da darwiniano di ferro, per me va bene così. Chi fa scelte sbagliate affronta il risultato dei propri errori. Se saprà correggerli e rimettersi in carreggiata… bene. Altrimenti è giusto che ci sia il declino. Ma davvero si pensava che delocalizzando e privatizzando avremmo tutti guadagnato di più? Non ci sono pasti gratuiti, dice un principio dell’economia.
Chi paga i costi delle scelte sbagliate? La forbice tra chi guadagna tantissimo e chi è ridotto al reddito di cittadinanza separa sempre di più una popolazione fatta in gran parte di poveri reali e potenziali, con una minoranza sempre più ricca (che si rifiuta di pagare le tasse). Una minoranza che ora si è anche impadronita dei mezzi di informazione e soffia sul fuoco. Chi crede che il Covid non esista e che in Ucraina non stia succedendo niente viene accomunato a chi denuncia questo stato di cose, venendo tacciato di complottismo. In effetti non c’è nessun complotto. Il mercato regola la nostra vita e il mercato mostra che questo modello (globalizzazione economica, privatizzazioni e delocalizzazione delle produzioni) non conviene alla maggioranza della popolazione.
La globalizzazione ecologica, che c’è sempre stata, ci lancia altri avvertimenti. Se li sapremo cogliere e cambieremo un folle stile di vita… bene. Altrimenti ne pagheremo le conseguenze.