Che la stampa di un paese totalitario o autoritario sia sottoposta a censura è un fatto acquisito, e non ci sono dubbi. Che nei paesi, anche democratici, impegnati in una guerra, si attivino dispositivi di censura molto severi è un altro fatto su cui egualmente non si possono nutrire dubbi. Anzi, in questi casi a volte i dispositivi di censura sono attivati con la volenterosa cooperazione degli imprenditori che possiedono i giornali: per dire, durante la Prima Guerra Mondiale, del governo di guerra del Regno Unito presieduto da Lloyd George fanno parte Lord Beaverbrook, che è ministro dell’Informazione; Lord Northcliffe, che è il responsabile della propaganda presso i paesi nemici; e Lord Rothermere (fratello di Northcliffe), che è segretario di Stato all’Aeronautica: e questi tre sono i più grandi magnati della stampa nel Regno Unito di quegli anni. Ma, da un’altra prospettiva, si può ricordare il sistema dei giornalisti “embedded”, cioè assegnati a un reparto militare, una soluzione adottata dai governi Usa sin dalla prima Guerra del Golfo, per imbrigliare i media che erano stati troppo liberi all’epoca della Guerra nel Vietnam: i giornalisti “embedded”, ovviamente, vedono e dicono solo quello che i responsabili militari consentono loro di vedere e di dire.

Ma a parte tutto questo, è il funzionamento dei media nelle libere democrazie che dovrebbe essere oggetto di un minimo di riflessione da parte di tutti. Credo che tutt’oggi un’ottima guida per una simile operazione sia La fabbrica del consenso, ovvero la politica dei mass media, un libro pubblicato da Noam Chomsky e Edward S. Herman nel 1988. Si tratta di una documentata ricostruzione del funzionamento dei media statunitensi negli anni precedenti alla pubblicazione del libro, con l’aggiunta di un brillante quadro teorico di riferimento. Chomsky e Herman invitano ad esaminare i media da 5 prospettive:

1) la dimensione dell’impresa che possiede il mezzo di comunicazione in questione, la concentrazione e il peso finanziario della proprietà, gli interessi economici delle imprese dominanti nel campo dei mass media: se i proprietari dei media sono pochi e concentrano nelle loro mani un alto numero di testate (stampa, televisione o web), si capisce facilmente la tendenza alla formazione di un pensiero dominante su temi cruciali;

2) il ruolo primario della pubblicità come fonte di finanziamento (soprattutto per i media privati, ma certo non solo per quelli);

3) l’uso fiduciario delle informazioni fornite dal governo, dal mondo degli affari e da “esperti” scelti dai media;

4) la ricorrenza di attacchi polemici, spesso molto brutali, diretti contro chi (giornalista, intellettuale, o quello che sia) abbia posizioni difformi rispetto al pensiero dominante;

5) l’identificazione para-religiosa di un nemico da abbattere, identificato come il male assoluto: e spesso è questo il perno del pensiero dominante che circola all’interno dei media.

“Questi elementi – osservano Chomsky e Herman – interagiscono tra loro e si rafforzano reciprocamente. Le notizie allo stato grezzo devono passare attraverso filtri successivi in modo che alla stampa ne arrivi solo il residuo depurato. Tali filtri fissano le premesse del discorso e dell’interpretazione, nonché la definizione di che cosa sia meritevole di pubblicazione”. Ecco, penso che ciascuno di questi punti avrebbe bisogno di uno spazio ben più ampio di quello di un povero post per essere esplorati a dovere: e tuttavia sarebbe bene che ciascuno di noi, ogni volta che prende in mano un giornale, accende una televisione, apre una pagina web, si chiedesse: chi possiede questo medium? Quali sono i suoi interessi? Quanto è condizionato dagli inserzionisti pubblicitari? Quali sono le fonti da cui si ricavano le informazioni?

Troppo complicato? Forse: e però: “Sono i media, bellezza, i media! E tu – magari – qualcosa puoi pure farci!” (Ed Hutcheson/Humphrey Bogart, da L’ultima minaccia, 1952 – con un paio di varianti, ma nello spirito di Ed …).

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