Exils intérieurs è lo spettacolo messo in scena al teatro della Pergola di Firenze da Amos Gitai, grande regista israeliano, con brani tratti da Antonio Gramsci, Herman Hesse, Thomas Mann, Rosa Luxembourg, Albert Camus. Che cosa può fare l’artista di fronte all’oppressione di regimi dittatoriali? Questa è la domanda che fonda la scelta dei testi fatta da Gitai. I testi sono perlopiù lettere, scritte dal carcere, dall’esilio, da luoghi che parlano da soli di una lontananza forzata. Ognuno vive il proprio esilio interiore, e il teatro oggi sembra poter dare una testimonianza intensa e attualissima di questa condizione. Condizione di distanza, di mancanza e di oppressione.

Nel 1928 Gramsci scrive una lettera dal carcere alla moglie Giulia, da cui è lontano ormai da due anni. Le racconta che anni prima c’era un operaio che andava spesso a trovarlo per vedere in anteprima la sua rivista, L’Ordine nuovo: era infatti ossessionato dal Giappone, di cui i giornali non parlavano quasi mai, se non quando c’era qualche grande terremoto. Lui voleva notizie del Giappone, perché questa assenza di informazioni non lo faceva dormire. E per trovare notizie sul Giappone andava da Gramsci. All’epoca, scrive Gramsci, io non capivo bene questa cosa del Giappone, ora invece l’ho capita, anch’io ho il mio Giappone: mi manca la sensazione della tua vita e di quella dei bambini, voi siete il mio Giappone.

Ognuno di noi ha da qualche parte un proprio Giappone, un luogo lontano nella memoria, un amore perduto, un figlio lontano di cui non si hanno notizie. Ognuno vive la sua perdita come fosse una cattività. Ma l’artista ha un compito supplementare, deve scendere nell’arena, non gli è più permesso di restare sugli spalti, come dice Camus in una conferenza sull’artista e il suo tempo, ripresa da Amos Gitai.

Il regista mette in scena queste lettere con un dispositivo scenico particolare: un lungo tavolo attorno al quale attori di varie nazionalità leggono i brani di questi autori in italiano, francese e tedesco, mentre sullo schermo in fondo alla scena scorrono i sottotitoli. Forse non è un caso che la lingua inglese, quella della globalizzazione standardizzante che tutti ci soffoca, sia esclusa da questo coacervo linguistico. Per l’Italia, le lettere di Gramsci sono lette (e caricate di un pathos drammatico e affettivo) da Pippo Delbono. Rosa Luxembourg parla, in una sua lettera, di certi bufali che aveva visto trainare un carico troppo pesante, e che per questo l’avevano fatta piangere. Le mie lacrime, scrive, erano quelle del bufalo. Sta tutta qui la com-passione dell’artista.

Hesse è più freddo nella sua scrittura, Mann più reattivo contro le angherie che subisce dal regime nazista. A volte l’attore che lo interpreta si alza in piedi, altre volte, nello scambio epistolare con Hesse, resta seduto: è come una melodia musicale di lingue, toni, affetti, espressioni, quella che si disegna nello scorrere dello spettacolo. Il quale è contrappuntato e come ritmato da intermezzi musicali eseguiti al violino, al pianoforte, alla fisarmonica, con il canto. Tutte le risorse del teatro sono mobilitate, ma tutte sono come “ridotte”: come se l’oppressione di cui si parla pesasse anche sulla messa in scena. Sullo sfondo, sul grande schermo, passano immagini estratte dai film di Gitai: e sono recinzioni, barriere, luoghi chiusi, immagini notturne, binari ferroviari ripresi in corsa che non portano però da nessuna parte. Anche in questo dialogo tra scena e schermo c’è un senso di forza dell’arte e al tempo stesso di blocco: l’energia che rimane imprigionata.

Questa condizione di sofferenza è come visualizzata in scena dalle luci che stagliano, forti, i profili degli attori sullo sfondo solo in controluce: nella cattività si perde anche l’identità. Mann per esempio viene privato dai nazisti sia della nazionalità tedesca sia della laurea honoris causa che gli era stata conferita, e reagisce con sarcasmo e indignazione alle comunicazioni che lo riguardano. Sembra, si dice ancora in un altro testo, la fine del mondo. C’è un piangere come se fosse morto Dio. Questo pianto è quello che oggi risuona ancora nelle orecchie di tutti noi.

Fino a lunedì 18 aprile un’intensa mostra site specific di immagini e fotografie di film di Gitai e di brani dello spettacolo è allestita nella sala d’arme di Palazzo Vecchio. Chi è a Firenze ci vada, un ottimo modo per passare il giorno festivo.

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