Gestire i rifiuti di plastica è ancora un’impresa piena di ostacoli e insidie. Perché non tutti possono essere ugualmente differenziati, diventando poi un nuovo prodotto. E perché riciclabile non vuol dire riciclato. Lo conferma Ispra: nel 2020 su circa 3,7 milioni di tonnellate di rifiuti plastici prodotti in Italia, neppure 1,6 milioni sono stati differenziati (quasi tutti imballaggi) e, di questi, sono state avviate al riciclo circa 620mila tonnellate. Per la campagna Carrelli di plastica, ideata e condotta insieme a Greenpeace, ilfattoquotidiano.it ha chiesto ad Andrea Lanz, responsabile dell’Area tematica Contabilità dei rifiuti di Ispra, di spiegare quanta plastica si perde nei vari passaggi e quali sono le prospettive. Tanto più che pende una spada di Damocle sugli imballaggi. “Da giugno 2022 l’Europa chiede calcoli più rigidi per contabilizzare i materiali effettivamente riciclati” spiega Lanz. E le stime sugli effetti del nuovo metodo, introdotto nel 2018 con le modifiche alla direttiva Ue, allontanano l’Italia dall’obiettivo di riciclo al 2025 che, per la plastica, è il 50% della raccolta. Se, dunque, nella gestione dei rifiuti l’Europa richiama al principio di gerarchia, quindi prevenzione e riduzione, riutilizzo, riciclo, recupero (compreso quello dell’energia) e, infine, smaltimento, vale ancora di più nel caso della plastica, per cui differenziata e riciclo, per quanto importanti, mostrano diversi limiti.
Rifiuti urbani, si differenzia circa il 42% della plastica – I dati sui rifiuti urbani sono cruciali perché è qui che si trova circa il 70% della plastica che si getta ed è su questa quota che il cittadino può dare un contributo diretto. “Per gli effetti dei lockdown del 2020, in Italia la produzione è scesa da poco più di 30 a 28,9 milioni di tonnellate, 3,7 dei quali plastici” spiega Lanz. Quanti finiscono nella differenziata? “Neppure 1,6 milioni di tonnellate. Circa il 42%”. Si tratta per il 95% di imballaggio, il resto è rifiuto ingombrante. Nel 58% che resta fuori dalla raccolta può esserci una parte di imballaggio non differenziato (dipende da area geografica, presenza del sistema di porta a porta e sensibilità del cittadino) ma, soprattutto, c’è la quota di rifiuto che non è imballaggio e, quindi, non va gettato nella plastica. Vanno nell’indifferenziato o portati ai centri di raccolta penne, occhiali, giocattoli, utensili da cucina, ciabatte, barattoli e diversi altri prodotti, fabbricati con plastiche anche molto diverse tra loro. “Questa quota, anche se consegnata all’isola ecologica o ai centri di raccolta, non viene contabilizzata. Non ci sono gli stessi circuiti di recupero – aggiunge Lanz – né un sistema di responsabilità estesa, come nel caso degli imballaggi, per organizzare la raccolta dei quali Conai e Corepla pagano i Comuni”. Che hanno regole spesso diverse e che rischiano di confondere i cittadini, così come alcune confezioni che si fa fatica a capire come differenziare. I brick per bevande, ad esempio, composti da carta, plastica e metallo (come quelli proposti dal Comune di Milano che stanno facendo discutere, ndr) dovrebbero essere gettati nel contenitore relativo alla materia di cui sono composti in modo prevalente, dunque la carta. Ma in Italia sono pochissime le cartiere in grado di riciclarli.
Il nodo plasmix – “Anche nella differenziata – spiega Lanz – c’è una quota del 40% che non va a riciclo, il plasmix”. Sono le frazioni estranee, i non-imballaggi erroneamente raccolti e le plastiche eterogenee miste, dalla busta di patatine alla confezione di ortaggi surgelati. E poi pellicole e involucri in forma di film che, tecnicamente riciclabili, di rado diventano materia prima-seconda. “Il plasmix va a incenerimento, viene bruciato, ma non è un problema solo del nostro Paese. Queste quote vanno ristudiate, reinventate. E non è facile” spiega Lanz. Sono in corso diversi progetti per il recupero del plasmix, una parte del quale viene esportato all’estero, in Europa e, dopo il bando del 2017 della Cina, finisce anche in altri Paesi del Sud-Est Asiatico, esattamente come gli scarti della differenziata.
Avviati al riciclo 620mila tonnellate di rifiuti plastici – Se nella raccolta di plastica c’è soprattutto imballaggio, è principalmente questo tipo di rifiuto – tra bottiglie, flaconi, dispenser, sacchi e sacchetti – ad avanzare verso il riciclo. Corepla fornisce i suoi dati: “È pari a 1,4 milioni di tonnellate la raccolta di imballaggi conferita ai Centri di selezione”. Prima di arrivare agli impianti di riciclo, infatti, questi rifiuti vengono portati in impianti dove vengono separati, perché se si mischiano diversi polimeri non è possibile ottenere una nuova plastica di qualità. Alcuni materiali possono essere scartati per la presenza di coloranti o perché contaminati da altri rifiuti. Finita la selezione, Corepla e gli altri consorzi mettono all’asta il materiale così separato. I trasformatori (che in alcuni casi possono essere gli stessi produttori) lo acquistano e si occupano del riciclo vero e proprio. Ma anche quando si arriva agli impianti di riciclo, c’è un ulteriore processo selettivo in seguito al quale si possono trovare altri scarti. Non è un caso se, secondo Plastics Recyclers Europe (associazione europea dei riciclatori) circa il 30% di polimero raccolto e avviato a riciclo si perde per strada. Di fatto, nel 2020, su 3,7 milioni di tonnellate di rifiuti plastici prodotti appena 620mila tonnellate sono state avviate a riciclo. Di tutti i rifiuti urbani riciclati, la plastica rappresenta il 4,6%.
Gli obiettivi europei e la spada di Damocle sugli imballaggi – Così sfuma il raggiungimento dei target europei. Per i rifiuti urbani nel loro complesso, nel 2020 il tasso di riciclo è stato del 48,4%, ma bisogna centrare il 55% al 2025, il 60% al 2030 e il 65% al 2035. Di strada da fare ce n’è. Gli altri obiettivi riguardano proprio l’imballaggio. Sia nel complesso sia per le singole frazioni merceologiche – dalla carta al vetro – sono stati già raggiunti i target al 2025 e, per alcuni materiali, anche quelli al 2030 introdotti con la modifica, nel 2018, della direttiva Ue. Gli imballaggi in plastica sono gli unici a non aver già raggiunto il target di riciclo del 50% al 2025 (che dovrà essere del 55% entro il 2030). Ad oggi l’Italia è al 48,7%, ma rischia di allontanarsi ancora di più. La direttiva del 2018, infatti, introduce una novità. “Finora nel calcolo si considerava la quota avviata al riciclaggio e al recupero di energia” spiega Lanz. Nel 2020, su 1,9 milioni tonnellate di imballaggi in plastica di pertinenza di Corepla immessi al consumo, 1,8 sono stati avviati principalmente al riciclo (il 47%) e a recupero energetico (48%). Questo può avvenire attraverso un processo di termovalorizzazione: si ricavano combustibili utilizzati per produrre energia termoelettrica o nell’industria, spesso nei cementifici. E in questi giorni ha fatto molto discutere la norma del decreto Energia che permette a questi impianti di bruciare rifiuti in deroga ai limiti quantitativi. “Dal 2022, però, non si chiede più di conteggiare la plastica che esce dalla piattaforma di selezione – spiega l’esperto – ma la quota che entra nell’operazione finale di riciclo, per essere convertita in qualcosa che diventerà un nuovo prodotto. Con il nuovo metodo si stima di scendere al 41%”.
I limiti del riciclo – A frenare il riciclo una serie di ostacoli legati al fatto che esistono vari tipi di plastica. Le bottiglie sono fatte di un polimero, i piatti di un altro e le vaschette di un altro ancora. Ognuno con caratteristiche e riciclabilità diverse. Come spiega Lanz “sono riciclabili in maniera compiuta le bottiglie in Pet, ma anche il polietilene utilizzato per flaconi di detersivi e prodotti per l’igiene e il polipropilene, quello dei vasetti dello yogurt e delle vaschette trasparenti per alimenti”. Altre tipologie non vengono riciclate “come il polistirolo o le plastiche con cui si incartano i salumi”. Ci sono polimeri (in genere le plastiche non rigide) difficilmente riciclabili e altri che, in teoria, lo sarebbero ma incontrano una serie di ostacoli, come le vaschette nere che sul nastro degli impianti di selezione molti lettori ottici non riconoscono. Negli ultimi anni, poi, è cresciuta la quantità di packaging composto da diversi materiali quasi impossibili da dividere. E sono numerosi i problemi che impediscono di ottenere nuove materie prime dal riciclo dagli imballaggi compositi poliaccoppiati, costituiti da più materiali, come plastica e metallo (lo sono la stragrande maggioranza dei tubetti di dentifricio e l’incarto grigio che contiene il caffè sottovuoto). Anche la quotazione sul mercato delle materie prime da cui si ricavano le plastiche ha un peso: a seconda del prezzo del petrolio, il materiale vergine può essere molto più conveniente rispetto a quello riciclato, come osservato nella primavera 2020, in piena pandemia, con il petrolio a prezzi stracciati. In questi casi, alcune plastiche non vengono riciclate perché non trovano collocazione sul mercato.
Il downcycling e l’opzione del riciclo chimico – Ad oggi, inoltre, il riciclo comporta perlopiù processi meccanici, con un conseguente deterioramento delle qualità dei polimeri. Per questo i produttori spesso aggiungono plastica vergine a quella riciclata, oppure utilizzano additivi, ma la plastica non può essere riciclata all’infinito e viene trasformata in prodotti della stessa qualità al massimo un paio di volte. Poi è soggetta a downcycling: viene riprocessata per prodotti di qualità inferiore, non riciclabili. Se, per esempio, un oggetto di plastica viene riciclato per produrre un giubbotto, questo – se non riutilizzato – finirà nell’inceneritore o in discarica. Il riciclo chimico potrebbe offrire una soluzione con la produzione di nuovi materiali vergini. Esistono diverse tecnologie, alcune già utilizzate come alternative all’incenerimento e abbandonate per costi ed emissioni inquinanti, mentre altre opzioni sono oggetto di sperimentazione. In Italia ci sono alcuni progetti ma, ad oggi, solo lo 0,1% di rifiuti plastici (3,6 kt/anno) vengono avviati al riciclo chimico.