di Giuseppe Ungherese*
Tra le varie tipologie di plastiche usate nella nostra quotidianità, quella impiegata per fabbricare bottiglie per acqua minerale, bevande analcoliche, succhi di frutta e latte – il polietilene tereftalato o PET – è da sempre considerata la più nobile. L’elevata trasparenza, la facilità di lavorazione nei cicli industriali, unite alla sua economicità, l’hanno reso il terzo tipo di polimero più impiegato al mondo per gli imballaggi monouso.
Eppure anche il PET, come tutte le altre plastiche, può essere fonte di sostanze chimiche pericolose per la salute umana che dalla bottiglia possono finire nel liquido alimentare che beviamo. Lo ha messo in evidenza, in uno studio pubblicato nelle scorse settimane sul Journal of Hazordous Materials, un gruppo di ricercatrici e ricercatori inglesi, statunitensi e italiani.
Passando in rassegna la letteratura scientifica specializzata, gli esperti hanno evidenziato che centocinquanta sostanze possono essere rilasciate dal contenitore nelle bevande. E, in diciotto casi, per alcune di esse sono stati rilevati livelli di contaminazione che eccedevano le soglie di sicurezza per la salute umana fissate a livello europeo.
Ci sono numerose variabili che aumentano il rischio di contaminazione: le condizioni di conservazione, l’esposizione alle alte temperature e alla luce solare (e ai raggi UV), il ricorso a bottiglie piccole e meno spesse. Anche la lodevole azione di riempire più volte la stessa bottiglia, che molti di noi possono aver fatto per ridurre lo spreco di plastica, può rivelarsi una scelta non sempre sicura.
Tra le sostanze indesiderate compaiono alcune aldeidi come acetaldeide e formaldeide, entrambe secondo la IARC (l’Agenzia internazionale delle Nazioni Unite per la Ricerca sul Cancro) correlate ad alcune forme di tumore. A cui si aggiungono alcuni interferenti endocrini, la cui presenza è accidentale visto che non vengono impiegati nel processo di fabbricazione del PET. Tra questi i più tristemente famosi sono gli ftalati e il bisfenolo A, che causano serie conseguenze sul metabolismo, la fertilità, lo sviluppo sessuale e cerebrale.
Anche l’antimonio, un metallo utilizzato nella produzione della plastica per le bottiglie e collegato a diverse patologie per l’essere umano, può essere ceduto dal contenitore alla bevanda. E, come evidenziano alcuni studi, i livelli di contaminazione di questo metallo possono essere maggiori in presenza di materiale riciclato: una soluzione a cui bisognerà ricorrere sempre di più nei prossimi anni in base a quanto stabilito nella direttiva europea SUP.
Per ridurre i rischi, gli studiosi raccomandano di intervenire sul design, prestando particolare attenzione a etichette e inchiostri, che sono spesso fonte di sostanze chimiche; accertarsi che le condizioni di conservazione siano ottimali; introdurre sistemi di “super pulizia” per la plastica proveniente dal riciclo. Bisognerebbe infine adottare sistemi di raccolta specifici per queste tipologie di contenitori, come i sistemi di deposito cauzionale adottati già da diversi anni in molte nazioni europee. Un sistema che dovrebbe vedere la luce anche in Italia, dando seguito a un emendamento approvato nel Decreto Semplificazioni e che ancora non è stato tradotto in realtà dai ministeri competenti.
È tuttavia evidente che per ridurre al minimo il rischio derivante da questa roulette chimica possiamo sempre scegliere di bere l’acqua di rubinetto: un’alternativa alla portata di tutti e quasi ovunque sicura nel nostro Paese. In tal modo faremo a meno di grandi quantità di imballaggi ed eviteremo sprechi inutili di materiali, come evidenzia la campagna “Carrelli di plastica” promossa da Greenpeace insieme a Il Fatto Quotidiano.
* responsabile campagna inquinamento di Greenpeace Italia
Aggiornato da redazione web il 19/04/2022 alle ore 17.30