Il settore della ceramica italiana vive un paradosso: le imprese hanno ordini fino all’anno prossimo ma faticano a soddisfarli. Insomma, è un mondo capovolto, nel quale le aziende rischiano di chiudere perché non riescono a produrre. Tra rincari energetici, esplosione dei costi di trasporto e forniture che funzionavano a singhiozzo, già nei mesi scorsi il comparto era sotto pressione. Ora, con la guerra, a questi problemi si è aggiunto il blocco delle spedizioni dall’Ucraina, da dove proviene il 25% dell’argilla utilizzata dalle imprese ceramiche. Fino a pochi mesi fa, navi da 35mila tonnellate partivano dal porto di Mariupol e, dopo aver attraversato il Mar d’Azov e il Mar Nero, sbarcavano a Ravenna. Dagli scali del porto, i camion con le argille estratte nel Donbass rifornivano le aziende ceramiche di Sassuolo, Faenza, Imola e Scandiano, le più grandi in Italia. Insieme alla meccanica, infatti, il comparto è il fiore all’occhiello del territorio.

Secondo i dati ancora provvisori del 2021, su una produzione nazionale di 6,1 miliardi di euro, il distretto emiliano vale 5 miliardi ed esporta l’85% del fatturato. “La domanda è altissima ma le nostre aziende hanno difficoltà di consegna” spiega il presidente di Confindustria Ceramica, Giovanni Savorani. A preoccupare gli imprenditori sono soprattutto i margini, risicatissimi a causa dei rincari energetici. Alcuni di loro preferiscono rimetterci piuttosto che perdere quote di mercato. “Noi abbiamo fatto la scelta di tutelare i clienti che sono il nostro patrimonio principale” prosegue Savorani, “senza badare troppo al conto economico. Del resto la situazione è talmente grave che riteniamo convenga fare così per proteggere le nostre fabbriche, i nostri lavoratori e per i 50 anni che ci abbiamo messo a conquistare i mercati di 160 Paesi in tutto il mondo”. Anche perché l‘indotto conta 20mila addetti ed eventuali chiusure avrebbero un impatto molto rilevante sul tessuto sociale.

Ad aggravare una situazione già critica sul fronte dell’energia, poi, è arrivata la guerra che ha causato il blocco delle importazioni italiane dall’Ucraina. “Inizia a mancare in particolare il caolino, un tipo di argilla necessario a produrre piastrelle molto bianche e di grande formato“, sottolinea Ermes Ferrari, responsabile dell’ufficio studi della Cna di Modena. Per il momento, tuttavia, il settore ha retto abbastanza bene, cercando nuovi fornitori e aumentando le consegne da quelli vecchi. “Stiamo provando a sostituire le argille che venivano dal Donbass, e che coprivano il 25-30% delle nostre composizioni, con quelle tedesche e francesi“, sottolinea Savorani, che è anche patron di Gigacer, importante azienda ceramica di Faenza.

Per sopperire al fabbisogno, inoltre, sono state aumentate le estrazioni da alcune cave in Sardegna. Oltre al maggiore costo di queste argille, c’è però il problema della qualità: si tratta infatti di creta meno pregiata di quella ucraina. “Sono materie prime più scure” spiega il dirigente, “quelle del Donbass invece sono bianchissime e molto plastiche. Per sostituirle ci stiamo rivolgendo all’India, al Brasile e al Venezuela. Sono in arrivo a Ravenna delle navi anche dalla Turchia“. Con un probabile aumento dei costi di trasporto dovuto alla maggiore distanza. “Cerchiamo di non badarci”, prosegue Savorani, “l’obiettivo è mantenere la barra dritta per servire i clienti: sarebbe un disastro abbandonare il mercato adesso”.

La fortuna è che le imprese del settore avevano scorte, in media, per un paio di mesi, e questo ha permesso loro di guardarsi intorno. Molte aziende, infatti, appena scoppiato il conflitto hanno iniziato a diversificare le forniture, mentre alcuni imprenditori avevano ridotto i propri acquisti di creta ucraina già dal 2014, quando la Russia ha annesso la Crimea e nel Donbass si è accesa la miccia del separatismo filorusso. “Anche se la guerra ha influito moltissimo, sono abbastanza fiducioso che il problema sia risolvibile” prosegue Savorani, “finora non abbiamo dovuto sospendere la produzione per la mancanza di argille”.

Per quanto riguarda il gas, invece, il discorso è diverso. Una trentina di imprese (su oltre 200) sono state costrette a bloccare per alcuni giorni gli impianti il mese scorso, quando il metano è schizzato a 3 euro al metro cubo, rispetto ai venti centesimi di un anno prima. Il prezzo poi è calato a 1,20 euro ma oscillazioni così brusche sono deleterie per un comparto energivoro come quello della ceramica. “L’energia è un fattore primario per le nostre produzioni e i rincari incidono soprattutto su chi fa prodotti di bassa gamma”, spiega Michele Iacaruso, titolare di Laek Sistemi, azienda che si occupa di macchine per ceramiche. “Per fare un metro quadro di piastrelle occorrono tre metri cubi di gas” prosegue l’imprenditore, “all’inizio del 2021, con il metano a 0,20 euro, il costo era di sessanta centesimi: oggi invece si è arrivati anche a 3 o 4 euro“.

Inoltre, sono poche le aziende del settore che si sono tutelate con contratti a lungo termine e a prezzi fissi. “Ci sono state anche delle rescissioni unilaterali: alcuni fornitori di energia hanno preferito pagare le penali pur di uscire da contratti”, sottolinea Savorani. “La nostra bolletta è aumentata da 60-70mila euro mensili a 240mila e a marzo sarà ancora più alta perché abbiamo prodotto di più”, aggiunge l’imprenditore e presidente di Confindustria Ceramica. Secondo Ferrari, responsabile di politica economica della Cna di Modena, il problema principale è l’incertezza: “Non si riesce a programmare: le imprese lavorano con margini ridottissimi e con listini la cui validità è massimo di una settimana“. “Siamo al paradosso” conclude l’economista, “ci sono aziende con ordini fino all’estate del 2023 ma che non possono pianificare e questo rischia di bloccare gli investimenti”.

Ma a far aumentare i prezzi del gas per il comparto della ceramica è stato anche il sistema europeo per lo scambio delle quote di emissione Ets (European trading system), che fissa un tetto alla quantità di Co2 totale che può essere emessa nell’Ue e impone a chi lo fa di acquistare i relativi diritti su un mercato virtuale. “Il sistema Ets ci stava dando molte difficoltà a crescere. L’asticella delle emissioni è stata abbassata nel corso degli anni e, non avendo tecnologie per abbatterle, abbiamo dovuto acquistare sempre più quote”, spiega il presidente di Confindustria Ceramica, Savorani. Inoltre, sul mercato Ets sono attive numerose società di trading che comprano i certificati per rivenderli, contribuendo a gonfiarne i prezzi. Le quote “influiscono moltissimo sui nostri costi”, sottolinea Savorani “quando è partita la legge nel 2005 una tonnellata di CO2 era valutata 4 euro. Ora siamo arrivati a 92 euro“. Non solo, però. All’interno dell’Unione europea, i Paesi più arretrati dal punto di vista ambientale godono di regole più morbide. “Ci sono nostri concorrenti in Polonia a cui non vengono applicate le quote, vengono premiati perché smettono di usare il carbone per produrre energia elettrica e passano al gas”. Una disparità di trattamento che gli imprenditori ritengono incomprensibile per un comparto che, spiegano, ha investito negli ultimi cinque anni 2,2 miliardi di euro e ha ridotto l’impatto ambientale della propria produzione.

D’altra parte, seppur tra mille difficoltà, la ceramica italiana è molto competitiva nei mercati internazionali. Nonostante l’aumento dei costi di trasporto – i noli dei container sono passati da 1800 a 9mila euro – nel 2021 le esportazioni verso gli Stati Uniti sono risultate superiori del 17% rispetto al 2019. Questo mentre il settore detiene, ormai in modo stabile, il 31% del totale delle importazioni americane di piastrelle. L’anno scorso le vendite all’estero hanno fruttato 5,5 miliardi di euro su un fatturato totale di 6,1.

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