Si è aperta alla Camera la discussione generale sul disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio superiore della magistratura (Csm). Un provvedimento dalla gestazione lunghissima (quasi un anno) e che ha ancora vari ostacoli di fronte a sè: dopo le centinaia di emendamenti depositati in Commissione, su cui si è trovato un accordo faticoso e parziale, ne sono attesi altre decine in Aula, anche da partiti che fanno parte della maggioranza di governo. Ne depositeranno certamente la Lega e Italia Viva, cioè le due forze che avevano rifiutato di ritirare le proprie proposte di modifica in Commissione: Maria Elena Boschi ne ha annunciati una quarantina a nome dei renziani. La Lega ne proporrà pochissimi (dai tre ai cinque), insistendo sui temi dei referendum sulla giustizia del 12 giugno: separazione ancora più stringente delle funzioni, responsabilità civile diretta, freno alle misure cautelari. Non ne arriveranno invece da Forza Italia, Pd, Leu, Azione nè dal Movimento 5 Stelle: nelle scorse ore era sembrato che i grillini avrebbero chiesto di reintrodurre la possibilità per i magistrati di esercitare almeno due volte il passaggio di funzioni da giudice a pubblico ministero (il testo licenziato dalla Commissione invece prevede un solo passaggio, da esercitare nei primi dieci anni di carriera). Il M5S però ha annunciato l’astensione nel voto finale proprio su questo punto: “Per la nostra sensibilità questa disposizione rischia di minare l’indipendenza del magistrato che è garanzia per i cittadini e principio sancito dalla Costituzione”, dichiarano in una nota la vicecapogruppo alla Camera Valentina D’Orso e il capogruppo in Commissione Giustizia Eugenio Saitta.
Il dibattito in Aula si è aperto con gli interventi dei relatori di maggioranza, il dem Walter Verini e il 5 Stelle Eugenio Saitta, e della relatrice di minoranza, Maria Carolina Varchi di Fratelli d’Italia. “Questa riforma non è stata scritta in Parlamento. Lo dimostra il fatto che abbiamo atteso nove mesi che il governo si degnasse di mandare i propri emendamenti. Un atteggiamento inaccettabile su un provvedimento del genere, che nelle dichiarazioni della ministra Marta Cartabia aveva la priorità assoluta”, ha detto quest’ultima. Il premier Mario Draghi aveva annunciato di non voler porre la questione di fiducia sul ddl, ma i tempi sono stretti: le nuove norme dovrebbero entrare in vigore in tempo per il rinnovo del Csm (di cui il testo riforma il sistema elettorale) previste, a meno di rinvii, per il prossimo luglio. Se alla fine si optasse per la fiducia, però, il provvedimento dovrebbe tornare in Commissione per accorpare i 43 articoli in due (uno per le previsioni a efficacia diretta e uno per le deleghe), poiché altrimenti il governo rischierebbe di cadere su ogni articolo. Al mattino c’è stato un vertice tra la ministra e i responsabili Giustizia dei partiti di maggioranza, da cui è emersa la volontà di approvare il testo giovedì senza la fiducia. L’impegno delle forze che sostengono il governo è a non votare gli emendamenti delle opposizioni.
A complicare il quadro c’è il probabile sciopero che verrà indetto dall’Associazione nazionale magistrati (il sindacato delle toghe): una mossa drastica, che non si metteva in campo dai tempi dei governi Berlusconi e che dipende da alcune previsioni della riforma considerate pericolose per le garanzie di indipendenza dell’ordine giudiziario. Nel testo infatti si prevede l’introduzione di un “fascicolo per la valutazione del magistrato”, al cui interno ci saranno i dati statistici e la documentazione necessaria per valutare il complesso dell’attività svolta, inclusa quella cautelare, “sia sotto il profilo quantitativo che qualitativo”, e che dovrà essere preso in considerazione dal Csm nel redigere le valutazioni di professionalità che garantiscono gli avanzamenti di carriera. Una norma voluta dal deputato Enrico Costa di Azione e criticatissima dalla magistratura: per l’Anm è un modo per trasformare i magistrati in burocrati, mentre per il consigliere Csm Nino Di Matteo renderà i pm “più attenti ai numeri e alle statistiche piuttosto che a rendere giustizia. E dunque non affronteranno inchieste complesse, diventeranno sempre più impauriti e più soggetti a interferenze esterne”. C’è inoltre lo stop alle “porte girevoli” tra politica e magistratura: divieto di esercitare in contemporanea funzioni giurisdizionali e ricoprire incarichi elettivi e governativi, come invece possibile oggi (vedi il caso di Catello Maresca, giudice a Campobasso e consigliere comunale a Napoli) e stop definitivo al rientro in toga per i magistrati che assumono cariche elettive o (per almeno un anno) incarichi di governo nazionali o locali, che saranno collocati fuori ruolo presso la pubblica amministrazione.