di Angelo Tuccella

Dal 24 febbraio di quest’anno vi è una guerra altra rispetto a quella che si sta combattendo in Ucraina: un conflitto deflagrato sul terreno dell’informazione che vede contrapposti da un lato i propagandisti filo-atlantici – i quali sono impegnati, pancia a terra, a manganellare chiunque osi spingere la riflessione oltre il limes tracciato dal mainstream – e, dall’altro, uno stuolo di “esegeti della verità” che tollerano, e talvolta rilanciano, qualsiasi “informazione” suoni alternativa rispetto alla narrazione dominante, indipendentemente dalla sua fondatezza. Ciò che accomuna gli uni agli altri è la profonda ignoranza circa la storia del popolo ucraino e le dinamiche sottese al rapporto tra questi e la federazione russa. In questo dibattito – che, confesso, mi è indigesto – risulta inaccettabile, più di ogni altra cosa, questa ostinazione a trattare l’Ucraina, nonostante il valore dimostrato sul campo, non come un soggetto autonomo capace di autodeterminarsi ma come una semplice pedina del tutto inconsapevole dei giochi geopolitici altrui: una vittima designata.

Per i sostenitori del modello liberista occidentale l’avvicinamento dell’Ucraina ad esso sarebbe l’ennesima conferma della superiorità della nostra civiltà rispetto ad altre, mentre, per gli Ucraini, le ragioni sottese a questa scelta non sono riconducibili alla ferma volontà di aderire acriticamente ai paradigmi della società occidentale quanto piuttosto alla necessità di emanciparsi dal vicino russo che nega loro il diritto di esistere come Stato indipendente.

Diversamente per i critici della Nato e del regime neoliberista la volontà degli ucraini non sembra avere alcuna importanza: essi rilanciano – per quanto molti in buona fede – la tesi secondo cui la brutale invasione ordinata da Putin altro non è che la conseguenza diretta dall’avanzata della Nato verso Est, ignorando, o trascurando, la cornice ideologica entro cui questa decisione è maturata. L’ideologia della “trinità russa” – cui Putin e i suoi ideologi, in particolare il filosofo Aleksandr Gel’evič Dugin, si rifanno – che vede la Russia, la Bielorussia e l’Ucraina unite sotto un unico stato, ha radici lontane e costituisce la base su cui è maturato l’attacco all’Ucraina. Un attacco che non mira – come molti “allocchi” nostrani pensano – alla salvaguardia degli interessi vitali della federazione Russia, bensì alla neutralizzazione di un popolo che, a differenza di quello russo, mal sopporta l’idea di doversi sottomettere a un tiranno.

Nella ideologia nazionale russa c’è sempre uno zar; un capo che ha la missione di salvare il paese: poco importa se si tratta di Nicola II, di Stalin, Brežnev o Putin, da parte del popolo russo ci sarà sempre una forma di sottomissione al capo e una predisposizione all’obbedienza. Mentre gli Ucraini, la cui radice storica va fatta risalire ai cosacchi, detestano i sovrani e manifestano una naturale propensione alla ribellione. È questa la loro cifra. La “denazificazione” dell’Ucraina – artificio retorico ideato per distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica dal vero oggetto del contendere – è, in realtà, una “deucrainizzazione”: ovvero il tentativo di distruggere la cultura e l’identità di un popolo che non riconosce come proprio il disegno imperialista russo che lo designa come entità vuota assoggettata al volere dello zar.

Non è un caso il fatto che Putin abbia scelto di parlare ponendosi di fronte alla statua di Caterina la Grande, che neutralizzò i cosacchi di Zaporižžja e fu la prima a imporre una russificazione di massa dell’Ucraina: si tratta di una chiara minaccia rivolta a un popolo che, avvicinandosi all’Occidente, si è macchiato di “lesa maestà”. Non si tratta di farneticazioni diffuse dalla propaganda occidentale ma delle conclusioni che si possono trarre dalla lettura di articoli comparsi su Ria Novosti, dove si parla esplicitamente di “rieducazione del popolo ucraino”.

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