Pechino ha raggiunto l'intesa per un accordo di sicurezza che fa seguito alla decisione dello Stato insulare di interrompere le relazioni diplomatiche con Taipei. Canberra e Washington hanno provato a ostacolare la firma, senza successo. La preoccupazione riguarda la militarizzazione di in un’area a lungo ritenuta immune dalle rivalità mondiali, su cui la Cina sta allargando la propria influenza grazie ai rapporti economici
La Cina e le Isole Salomone hanno raggiunto l’intesa per la firma di un accordo di sicurezza che verrà ratificato nel mese di maggio. Il patto, come ricordato dal primo ministro delle Isole Salomone Manasseh Sogavare, non prevede la creazione di una base militare cinese nella piccola nazione dell’Oceania e fa seguito alla decisione, assunta dalle autorità locali nel 2021, di interrompere le relazioni diplomatiche con Taiwan e di riconoscere la Repubblica Popolare Cinese. Taipei può contare su un piccolo numero di alleati nel mondo, appena 14, che riconoscono l’isola come uno Stato e che rappresentano appena lo 0,2 per cento del Prodotto Interno Lordo globale. Si tratta, perlopiù, di nazioni molto piccole e situate nei Caraibi oppure in Oceania. Tra le eccezioni ci sono il Guatemala, l’Honduras, il Belize, il Paraguay, lo Swaziland e Città del Vaticano. La lista degli alleati di Taiwan si sta riducendo costantemente e negli ultimi sei anni diversi Paesi, come il Nicaragua, hanno chiuso i rapporti ufficiali con l’isola. Pechino, sfruttando lo status di superpotenza economica e politica assunto dalla Cina, riesce con facilità a convincere i Paesi a passare dalla propria parte. In alcuni casi, come denunciato dal ministero degli Esteri di Taiwan, pesano gli aiuti finanziari diretti promessi ma ben pochi, in realtà, desiderano inimicarsi il gigante cinese.
L’Australia e gli Stati Uniti hanno provato a dissuadere le Isole Salomone dal dare il proprio assenso al patto di sicurezza ma non sono riuscite nel loro scopo. Si tratta di una vittoria diplomatica di Pechino e di un forte imbarazzo per Canberra e Washington che avevano espresso preoccupazione, come riportato da Bloomberg, “per la mancanza di trasparenza” del nuovo trattato e per il fatto che quest’ultimo “possa destabilizzare la regione”. L’amministrazione Biden e l’esecutivo australiano avevano anche provato a mobilitare alcuni pesi massimi del governo, senza che ciò abbia portato a sviluppi significativi. Anche il primo ministro neozelandese Jacinda Ardern si è unito al coro di critiche affermando che “non c’era bisogno di questo accordo” e dichiarandosi “preoccupata” per la militarizzazione del Pacifico.
L’accordo di sicurezza tra Cina ed Isole Salomone si è materializzato ad appena quattro mesi di distanza da una serie di rivolte e devastazioni che avevano colpito le Salomone e che avevano spinto il governo locale a chiedere l’invio di peacekeeper provenienti da Australia, Figi, Papua Nuova Guinea e Nuova Zelanda per risolvere la situazione. La nazione non è nuova a violenze ed instabilità, scoppiate in più occasioni per motivi socio-economici e migratori e deflagrate con particolare intensità tra il 1998 ed il 2000. L’instabilità, come ricordato dal Center for Strategic and International Studies, si trascinò così a lungo da rendere le Salomone “uno Stato fallito” e da richiedere la presenza di una Missione di Assistenza Regionale (Ramsi), guidata dall’Australia, per ben 16 anni tra il 2003 ed il 2019.
La Cina ha potenziato i propri rapporti economici con le Isole Salomone proprio a partire dal 2019, quando queste ultime l’hanno riconosciuta al posto di Taiwan. Le Isole sono state coinvolte nei progetti legati alla Nuova Via della Seta ed è stata promessa la costruzione di uno stadio gigantesco. Gli investimenti diretti sono decollati e Tarcisius Kabutaulaka, professore presso l’Università delle Hawaii, ha ricordato al Time che “ le imprese cinesi dominano ogni settore dell’economia delle Isole Salomone, dall’estrazione delle risorse naturali alla vendita al dettaglio passando per una crescente assistenza al governo”. “Per comprendere la portata dall’influenza cinese”, ha chiosato Kabutaulaka, “bisogna osservare il flusso di capitali provenienti da Pechino”. L’infrastruttura e la voglia di investire della Cina sono inoltre essenziali per la ripresa dalla pandemia di Covid.
Nel 2018 il Sydney Morning Herald aveva parlato di un interesse della Cina a costruire una base militare nelle Isole Vanuatu, situate a meno di 1500 miglia dalla costa nord-orientale dell’Australia ed in un’area del Pacifico a lungo ritenuta immune dalle rivalità tra le grandi potenze. Una delle basi della dottrina di sicurezza australiana consiste proprio nell’esclusione delle altre potenze dalle isole che si trovano nelle sue vicinanze. Il dispaccio diffuso dal giornale australiano non ha poi avuto un seguito ma, come affermato da War on the Rocks, la penetrazione militare cinese nel Pacifico meridionale non può essere vista di buon occhio dalle democrazie marittime del “Quad”, un’alleanza strategica informale tra Australia, Giappone, India e Stati Uniti nata con lo scopo di connettere l’espansionismo cinese nella regione dell’Asia-Pacifico.
La Cina ha espanso, negli ultimi due decenni, la propria influenza nel Pacifico del Sud e per molti questa crescita ha ritmi più veloci di quelli ritenuti normali. Le nazioni del Pacifico del Sud sono tra le più esposte ai disastri naturali e a causa delle piccole dimensioni hanno difficoltà a sviluppare un’economia funzionante, come dimostra il caso di Tonga. L’eruzione vulcanica che, alcuni mesi fa, ha provocato gravi danni a Tonga ha dato vita a una corsa agli aiuti, che ha visto competere Australia e Nuova Zelanda con la Cina. Pechino ha potuto contare su un vantaggio incolmabile dato che le Tonga sono indebitate per il 25 per cento del proprio Pil con la Cina. Quest’ultima era stata l’unica ad aiutare nella ricostruzione dopo le distruttive rivolte del 2006, anche se con prestiti gravosi. L’alleato più importante della Cina nel Pacifico sono le Isole Figi. Qui vivono almeno 10mila cinesi, c’è un centro culturale molto legato a Pechino e ci sono anche le sedi dei media nazionali cinesi. Il primo ministro Frank Bainimarama è considerato molto vicino a Pechino e nel 2015, come riportato dal Guardian, aveva lodato la Cina affermando che “non aveva solamente una grande storia ma anche un grande presente e un grande futuro”. Aggiungendo poi che “le Fiji ritengono che debba assumere la leadership mondiale per risolvere le più grandi problematiche del nostro tempo”. Il principio di non interferenza praticato dalla Cina in politica estera ha compiaciuto molti leader del Pacifico tra cui lo stesso Bainimarama, un ex militare che aveva assunto il potere grazie a un colpo di Stato.