Bisogna riconoscere – a quasi due mesi dall’inizio del conflitto e costretti a constatare come il peggio può non essere alle nostre spalle – che Putin ci riserva ogni giorno un campionario di mistificazioni esibite, ostentazioni raccapriccianti, minacce roboanti che finiscono persino col “distrarci” da tragedie, come quella di Mariupol, non meno terribili della caduta di Troia o della battaglia delle Termopili.
Nelle ore in cui le truppe cecene del braccio armato di Putin Ramzan Kadyrov, un criminale che secondo Novaja Gazeta ed Amnesty International “gestiva” anche un campo di concentramento per la tortura e l’eliminazione degli omossessuali, stanno stringendo in una “morsa d’acciaio” ad Azovstal gli ultimi resistenti di Mariupol, lo zar da Mosca ha celebrato con un’enfasi degna del Dottor Stranamore l’ultimo gioiello bellico di Mosca. Il nuovo missile intercontinentale Sarmat, una sorta di sensazionale ordigno “fine di mondo” è stato infatti presentato con una postilla: “Questa arma non avrà pari al mondo per lungo tempo e farà riflettere coloro che stanno minacciando la Russia”.
Il copione giornaliero, tanto più da quando si è inaugurata l’offensiva per il Donbass, prevede in parallelo alle minacce quelle che per noi sono provocazioni inconcepibili, ma che ad uso interno per una popolazione anestetizzata dal bombardamento della propaganda e per un esercito di coscritti e mercenari possono suonare come un incoraggiamento o un incentivo. Mi riferisco in particolare al tributo onorifico nei confronti dei massacratori di Bucha decorati da Putin per ” la tenacia, la determinazione e il coraggio” evidentemente dimostrato nel torturare, mutilare, trucidare uno su cinque, secondo la stima del sindaco, gli sventurati che non avevano voluto o potuto abbandonare le loro case: “Orrorificenze” come ha titolato il manifesto per quelli che vengono ritenuti “atti di eroismo di massa” secondo i parametri valoriali del Cremlino.
E nella serie delle provocazioni che vorrebbero ribaltare la realtà – ma evidenziano solo l’assurdità di un risultato sconcertante e arduo da gestire anche per il “vincitore” – c’è la trovata macabra della parata del “Reggimento Immortale” il 9 maggio nell’anniversario della vittoria contro i nazisti nella Seconda guerra mondiale a Mariupol, città di morti ridotta in cenere dall’avanzata di Putin con immagini che rimandano inevitabilmente all’offensiva nazista.
Un nome, quello di Mariupol, destinato a depositarsi nella memoria collettiva dell’Occidente come città “martire” ma anche città testimone della resistenza eroica di tutti coloro che sono asserragliati nei meandri della gigantesca acciaieria sotto le micidiali bombe anti-bunker e stanno vivendo quelli che probabilmente possono essere i loro ultimi momenti. Uomini a cui va riconosciuta la dignità di resistenti per la condizione oggettiva di essere dalla parte degli aggrediti, di non avere via d’uscita e di trovarsi in un rapporto di 1 a 10 rispetto agli aggressori. Inclusi i militari del battaglione Azov, con note simpatie neonaziste e, secondo due rapporti dell’Alto commissario per i diritti umani dell’Onu, precedenti di presunti crimini di guerra tra il 2015 e il 2016, che costituirebbero lo scalpo più ambito per Putin “il denazificatore” che sta attuando su larga scala, nella sua “operazione militare speciale” e tramite le onorificenze, orrori anche peggiori di quelli attribuiti al famigerato battaglione.
E paradossalmente, ma non tanto, la pretesa di Putin di motivare un’aggressione così devastante quanto incomprensibile con la necessità di sradicare dall’Ucraina le forze di destra sta producendo l’effetto opposto di rafforzarle e di favorire un sentimento anti-russo e fortemente nazionalistico.
Come ha evidenziato su Open l’analista politico di Stoccolma Andreas Umland, in questi ultimi mesi di guerra e sempre più con la resistenza strenua di Mariupol è aumentato il supporto dell’opinione pubblica ucraina nei confronti dei combattenti di Azov, “la loro reputazione è molto cambiata, ora sono intoccabili e rispettati”.
Se nella stoica difesa di Mariupol gli ultimi resistenti (oltre ai militari di Azov, al 36° reparto della marina ucraina e ai volontari stranieri ci sono i civili che hanno trovato riparo nelle acciaierie e non vogliono o non possono lasciare la città) dovessero diventare “martiri” stanati con le armi chimiche e “finiti” da Ramzan Kadyrov, l’agghiacciante vittoria di Putin avrebbe effetti collaterali molto pesanti e potrebbe diventare persino ingestibile per l’aggressore.
E forse in forza di queste considerazioni, oltre che del rischio di alte perdite, mentre il Cremlino annuncia trionfalmente “la città è nostra”, Vladimir Putin in un colloquio che ha voluto esibire davanti al mondo con il suo ministro della difesa dice “di fermare” l’assalto all’acciaieria Azovstal e ordina al contempo “bloccate l’acciaieria in modo che non possa passare una mosca”.
A parole Putin avrebbe allentato la presa, anche se l’annunciata sospensione dell’ assalto, parzialmente smentita dai successivi bombardamenti sull’area dell’Azovstal segnalati dall’agenzia di stampa ucraina Unian, significa solo prolungare di 3-4 giorni quello che il ministro della difesa definisce “completamento dell’operazione”, ovvero la fine degli assediati all’interno del bunker che di ora in ora si trasforma sempre più in una gigantesca bara. Fuori intanto si ammassano i cadaveri come nella regione di Kiev. E gli appelli drammatici dei resistenti ai leader mondiali e al Papa per un finale alternativo alla resa incondizionata agli uomini di Ramzan Kadyrov o a marcire, come sta già letteralmente avvenendo per i feriti senza medicine, sta cadendo inesorabilmente nel vuoto.
Il 25 aprile 2022 non può prescindere da queste immagini e dal peso morale dell’esito di una guerra drammaticamente in corso, che non abbiamo voluto ma che dipende anche dalle nostre scelte e dalla nostra determinazione a sostenere la resistenza degli aggrediti oltre che qualsiasi possibile negoziato.
Cercando di sorvolare sulle polemiche a cui purtroppo ha dato adito l’Anpi con le dichiarazioni del suo presidente più e meno attuali, obiettivamente sbilanciate su un “neutralismo” decisamente filo-russo, preferisco sottolineare le parole cristalline della vicepresidente Albertina Soliani: “Sono convinta che bisogna riconoscere la resistenza nel mondo, come quella in Ucraina, stare dalla sua parte, sostenerla, sono in gioco i valori della democrazia”. Con l’aggiunta di cui non doveva esserci bisogno per l’Associazione Nazionale Partigiani: “Come si fa a fermare l’aggressore e a difendere le vittime? Anche i partigiani hanno usato le armi”.
In modo analogo e persino più deciso si era espressa Liliana Segre nel videomessaggio inviato al congresso nazionale dell’Anpi quando aveva precisato, per sconfessare la possibilità di un’equidistanza: “La resistenza del popolo invaso rappresenta l’esercizio di quel diritto fondamentale di difendere la propria patria che l’art. 52 prescrive addirittura come sacro dovere”. E in prossimità del 25 aprile ha ripetuto che “è impossibile cantare Bella Ciao senza pensare all’Ucraina. Il popolo ucraino è stato aggredito e la resistenza va sostenuta… la pace non si ottiene con l’indifferenza o con progressive concessioni agli invasori”.
Come ha scritto Gianfranco Pasquino nel commento su Domani del 20 aprile intitolato La resistenza spiegata all’Anpi. I partigiani non avrebbero avuto dubbi sull’Ucraina: “È in nome della stessa dignità di popolo e di patria” rivendicata dai partigiani che non vollero abbandonare la lotta armata nell’autunno-inverno ’44-’45 “che gli ucraini non si arrendono e chiedono armi per respingere l’invasore. La loro è una guerra di difesa prevista come accettabile dal Costituente nell’art. 11 della Costituzione”. Un richiamo impegnativo per l’Anpi e per tutti quelli che non vogliono ridurre il 25 aprile ad una sfilata dietro la bandiera arcobaleno con il sottofondo di Bella Ciao.