La gestione delle risorse umane è cosa ben diversa dalla amministrazione del personale. La prima attiene al governo della pancia e della testa delle persone ed è di competenza dei capi diretti, dei manager che devono guidare emozioni, motivazioni e responsabilità; la seconda concerne, e non è una attività di serie B, una rilevazione di assenze/presenze e la compilazione di una busta paga ed è di pertinenza di un professional dell’area HR.
Eppure nella stragrande maggioranza delle piccole imprese del nostro paese, laddove la figura del proprietario-imprenditore-manager è spesso in capo alla stessa persona, manca ancora una cultura di gestione delle risorse umane. Quando non c’è addirittura confusione scambiandola con l’amministrazione del personale.
Ma, nonostante il palese buco organizzativo e culturale, senti tanti piccoli imprenditori che, scimmiottando i fuffa-guru (che spesso fanno più danni delle banche), chiedono ai loro capi-reparto o direttori di funzione, privi di formazione al riguardo, di fare, come se fossero pizze e crocchè, da “coach e da manager”.
Termini abusatissimi da parte di chi non conosce neppure la differenza fra “fare il coach” e “fare il manager”.
In una realtà specifica e particolare come una piccola impresa, dove i ruoli si confondono e sovrappongono spesso, può un manager essere anche un coach?
La differenza già si legge nella definizione del ruolo.
Il coach (in italiano allenatore) è colui che dedica tutto, o quasi, il suo tempo alla buona tenuta sul campo degli uomini e donne che gli sono stati assegnati (o che ha scelto personalmente per vincere la sfida). Li conosce uno a uno; è al corrente delle loro problematiche personali e professionali; sa che il suo primo obiettivo, prima ancora di vincere la sfida sul campo, è quello di ottenere una buona integrazione fra caratteri diversi, fra personalità diverse, fra culture diverse. Il coach è rispettato perché, per la sua storia e per i suoi atteggiamenti, ha autorevolezza nella gestione del fattore umano (sa motivare) e nella conoscenza dei metodi e delle tecniche specifiche che devono essere praticate (sa insegnare).
Il coach vive costantemente a fianco della sua squadra; rispetta le singole specializzazioni e professionalità e non si sostituisce mai agli specialisti e ai professionisti nel loro operare quotidiano. Il “buon allenatore” è colui che riceve l’incarico di allenare un gruppo di individui, ognuno con un suo rendimento base, consapevole che nell’arco di un tempo prestabilito deve portarli ad un rendimento maggiorato. Attraverso il miglioramento della loro prestazione e all’aumento della loro prestazione e della loro motivazione vincerà la sfida.
Il manager (dal latino, “manus agere” che, tradotto in italiano, corrisponde a “maneggione”) è colui che dedica tutto, o quasi, il suo tempo alla gestione economica di tutte le risorse (non solo persone) che gli sono state affidate (come i materiali, i macchinari e il denaro).
Il suo primo obiettivo è quello di raggiungere i risultati economici di budget, che talvolta vengono assegnati senza sentire il suo parere, integrando risorse disomogenee a sua disposizione. Per quanto riguarda le persone, talvolta, deve prescindere dall’uniformare e omogeneizzare le differenze interculturali esistenti. Il manager è rispettato perché ha autorità formale e istituzionale. Egli comanda e ottiene ubbidienza anche se le persone che dipendono da lui (e che quasi sempre non ha scelto) non sono convinte e motivate per quello che devono fare.
Il manager non può vivere costantemente a fianco dei suoi collaboratori perché frequentemente è impegnato, soprattutto nelle piccole realtà, in attività anche operative nonché in riunioni e incontri con la direzione.
Ma soprattutto nelle piccole imprese il capo-reparto (o il direttore di una area organizzativa) è cosciente che l’ottimizzazione economica del sistema a lui afferente non deriva dalla ottimizzazione dei singoli contributi, ma da una costante mediazione fra esigenze disparate, danneggiando talvolta il contributo dei suoi specialisti e dei suoi professional a vantaggio dell’obiettivo da raggiungere. Dovendo garantire il rispetto delle urgenze del lavoro quotidiano in chiave economica si sostituisce ai suoi dipendenti in maniera non sempre esauriente ed efficace. Per questa ragione il manager diventa un collaboratore in più (e non sempre il migliore).
Se il coach dedica almeno l’80% del suo tempo alla cura dei suoi uomini, il manager non ne dedica normalmente più del 20%. Chiedere a un manager di diventare coach è pertanto molto difficile, così come chiedere ad un coach di gestire le persone a lui assegnate ma con finalità prettamente economiche.
Ma è possibile chiedere al manager che dedica un quinto del suo tempo alla gestione delle sue risorse umane, di passare dal 20% al 30%. Quel 10% di maggiore impegno gli verrà ripagato ampiamente in termini economici e temporali da una maggiore resa nell’uso del materiale, dei macchinari e del denaro da parte dei suoi collaboratori.
Nelle piccole imprese essere un po’ (giusto un po’) meno manager e più coach è possibile.
Ed è anche conveniente.