Depositi in fiamme, negoziati in fumo. Altri due depositi di carburante russi sono letteralmente esplosi stanotte a Bryansk, 150 chilometri oltre la frontiera ucraina, quadrante sud-ovest. A darne notizia il ministero russo per le Situazioni d’emergenza, precisando che non ci sarebbero vittime. Si tratta del quarto rogo di questo tipo in una settimana, molti di più se si prende a riferimento il mese di aprile. Anche stavolta sono stati colpiti i depositi del gigante energetico Rosneft. Anche se non vengono rivendicati, ci sono pochi dubbi che siano legati al conflitto in corso, ma non è chiaro se si sia trattato di un attacco di Kiev o di un’azione di sabotaggio, come ventilato per altri tre roghi sospetti in 48 ore (al polo Aerospaziale Kharlov, all’istituto di ricerca di Tver e l’impianto di solventi a Dmitrievsky). I media ucraini riportano che le fiamme sarebbero divampate dopo alcune esplosioni. Kiev nega ogni responsabilità e semmai accusa Mosca di averlo provocato “per accusare noi”, in pratica il sospetto della “false flag” spesso balenato durante il conflitto.

Di certo è il quarto caso in pochi giorni e almeno un precedente ha mostrato la partecipazione diretta di Kiev. Il 1 aprile a Belgorad sono bruciati otto depositi e i filmati hanno mostrato l’azione mirata e coordinata di due elicotteri ucraini, a 30 chilometri dal confine, un vero e proprio raid notturno favorito dalla relativa vicinanza. Ma con l’incendio a Bryansk, capoluogo dell’omonima regione, le incursioni di questo tipo – sempre che di questo si tratti – si ampliano per raggio d’azione e profondità, aprendo un fronte ad altissimo rischio che Kiev si guarda bene, appunto, dal rivendicare. Secondo i servizi di intelligence occidentali questi blitz sarebbero la risposta alle devastazioni alle infrastrutture ucraine che fin da subito Mosca ha inferto, non trascurando depositi e raffinerie a Lviv, Mykolaiv, a Odessa e nelle altre regioni del paese dove ha preso territori. In pratica sarebbe la stessa strategia ritorta contro i russi. Che si porta dietro però alcuni rischi delicatissimi: è evidente che se la Russia potesse dimostrare una qualche collaborazione da parte dei paesi della Nato avrebbe agio di puntare il dito e accusare l’Occidente. Questo è il motivo per cui a metà aprile l’amministrazione Biden ha dovuto dichiarare che non avrebbe fornito agli ucraini informazioni d’intelligence utili a portare questo di attacchi dentro al territorio russo, per evitare appunto il rischio di un’escalation.

Ci sono altri aspetti delicati dietro i blitz. La raffineria colpita stanotte fa parte di un oleodotto (paradossalmente chiamato “dell’Amicizia”) che porta il petrolio russo verso la Germania, la Polonia e l’Ungheria. Danneggiarlo significa pestare indirettamente i piedi al cancelliere tedesco Olaf Sholz che ha frenato – non senza polemiche a Berlino – sulla fornitura di armi pesanti e sull’embargo sul gas, avendo da fare i conti con una forte dipendenza dalle forniture russe. Altra questione delicata: pare che nel raid sia stato colpito non solo il deposito Rosneft ma anche una base militare usata anche come deposito di razzi e proiettili di artiglieria. Raid di questo tipo aumentano l’allerta di Mosca lungo i confini e sullo spazio aereo. Spazio che Mosca, si sa, usa e sfrutta poco, fino a lasciare margini per operazioni che espongono al sospetto gli alleati occidentali di Kiev. Il 22 aprile gli Stati Uniti e altre potenze straniere erano impegnate in operazioni fuori dallo spazio aereo ucraino per supportare le forze di Kiev. Mentre un RC-135 della Royal Air Force sarebbe stato in volo sul Mar Nero, a 150 miglia da Kherson, proprio mentre nella città alle spalle della Crimea veniva sferrato un attacco devastante contro la 49a armata delle truppe occupanti, tale da azzerare il posto di comando e uccidere altri due generali e 50 ufficiali russi. Era bastato il primo blitz senza vittime sui depositi a 40 km da Kharkiv per far dire al Cremlino “ci saranno conseguenze” e “i negoziati si complicano”.

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