Gli scienziati hanno analizzato le tendenze di crescita nell’ultimo secolo di oltre 27mila popolazioni provenienti dalle aree protette –1.506 in tutto – di 68 Paesi. Si tratta della più grande ricerca a livello mondiale e i suoi risultati non sono incoraggianti
Parchi nazionali e aree protette non riescono sempre a rallentare l’estinzione di piante e animali rari. Lo rivela uno studio pubblicato su Nature. Sotto esame gli uccelli delle zone umide, scelti per i loro comportamenti come esemplari rappresentativi della fauna selvatica. Gli scienziati hanno analizzato le tendenze di crescita nell’ultimo secolo di oltre 27mila popolazioni provenienti dalle aree protette –1.506 in tutto – di 68 Paesi. Si tratta della più grande ricerca a livello mondiale e i suoi risultati non sono incoraggianti. Solo nel 27% dei casi l’istituzione di zone a tutela della biodiversità ha avuto un effetto positivo netto. Invece per quasi metà dei gruppi sotto esame non c’è stato alcun impatto, mentre nel 21% le specie hanno invece subito un effetto negativo. Numeri che fanno riflettere, soprattutto in vista dell’obiettivo – condiviso anche dall’Italia – di proteggere entro il 2030 il 30% delle terre e del mare dell’Unione Europea. A fare la differenza – secondo gli esperti – sono il modo e le risorse con cui vengono gestiti i parchi. “Abbiamo bisogno di maggiore attenzione per garantire che le aree siano ben governate a beneficio della biodiversità” ha dichiarato al quotidiano britannico Guardian Hannah Wauchope del Center for Ecology and Conservation presso l’Università di Exeter, autrice principale dello studio.
A trent’anni dalla legge quadro sulle aree protette (la 394/1991), il dibattito in Italia è ancora aperto. I quasi 6 milioni di ettari tutelati – tra terra e mare – anche grazie al programma europeo Rete Natura 2000, per esperti e ambientalisti non sono sufficienti. Però “ci sono pochissimi studi che esaminano se i parchi esistenti rallentino efficacemente il declino delle specie o migliorano le popolazioni – afferma Julia Jones, professoressa alla Bangor University e coautrice dello studio pubblicato su Nature – Sembra abbastanza semplice, ma il motivo è che in realtà è davvero difficile da fare”. La ricerca sulle aree protette ha esaminato gli uccelli acquatici. Per gli scienziati infatti la loro abbondanza, capacità di colonizzare e lasciare i luoghi rapidamente e la qualità dei dati disponibili li rendono un buon campione per altri animali selvatici. Lo ha confermato anche Thomas Brooks scienziato dell’International Union for Conservation of Nature, non legato a questa ricerca. Gran parte dei dati raccolti sono il frutto del lavoro di cittadini, volontari e Ong ambientaliste. Il confronto tra i numeri delle popolazioni prima e dopo la creazione delle aree protette hanno condotto a risultati inattesi. In generale gli uccelli tutelati appaiono sani, ma nel 48% dei casi non ci sono particolari differenze tra i gruppi che vivono all’interno e all’esterno dei parchi. Nel 41% il numero di esemplari è rimasto lo stesso o addirittura è aumentato. Le specie che hanno tratto beneficio dalla protezione ambientale sono invece meno di un terzo del totale, mentre nel 21% si è registrato addirittura un declino delle popolazioni. I leder di almeno 12 paesi – tra cui il britannico Boris Johnson e il francese Emmanuel Macron – stanno spingendo per l’obiettivo del 30% delle aree tutelate entro il 2030. Secondo gli scienziati però espanderle non è sufficiente: bisogna rendere più efficiente l’amministrazione di quelle esistenti.
“Sappiamo che i parchi possono prevenire la perdita di habitat, soprattutto perché fermano la deforestazione – ha spiegato Hannah Wauchope al Guardian – Tuttavia, comprendiamo molto meno come le aree protette aiutino la fauna selvatica”. Lo studio sugli uccelli acquatici mostra che per “molte zone che funzionano bene, molte altre non riescono ad avere un effetto positivo”. I parchi più grandi in generale sembrano più efficienti, probabilmente per la maggiore quantità di risorse economiche che riescono ad attirare. “Non stiamo dicendo che le aree protette non funzionino” in generale, ha spiegato ancora l’esperta della Exeter University. La ricerca però individua alcune caratteristiche che potrebbero rendere più facile la conservazione degli animali nelle zone a tutela esistenti: “La cosa più importante da cui dipende il loro impatto è se sono gestiti tenendo conto delle specie” che li abitano. “Non possiamo semplicemente aspettarci che le aree protette funzionino senza una gestione adeguata”.