LA NOSTRA CAMPAGNA - Per il report della Ellen MacArthur Foundation hanno fornito i loro dati (oltre a 18 governi) anche 130 aziende, che rappresentano più di un quinto del mercato globale degli imballaggi. Tra queste Coca Cola, Danone, Mars, L’Oreal e Ferrero.
Le multinazionali che producono, utilizzano e riciclano enormi volumi di imballaggi in plastica e che si sono impegnate a cambiare strada stanno riducendo il consumo di quella vergine. Ma il ritmo è ancora lento e le azioni non sono sufficienti. I progressi, infatti, sono in gran parte guidati dal crescente utilizzo di contenuto riciclato nel packaging, mentre sono scarsi gli sforzi per eliminare monouso e imballaggio inutile. E pochissimo si fa sul fronte del riuso. Certo, l’anno del Covid-19 non ha aiutato, ma resta il fatto che l’impiego di materiale vergine è diminuito di poco più dell’1% nel 2020 rispetto all’anno precedente, mentre il ricorso a confezioni ricaricabili è stato pari a meno del 2% di tutta la plastica messa in commercio. L’ultimo rapporto della Ellen MacArthur Foundation mostra come hanno agito, nel 2020, alcune delle multinazionali che immettono sul mercato più tonnellate di plastica, tra le centinaia di realtà che aderiscono Global Commitment and Plastic Pact network. L’iniziativa, promossa dalla fondazione, prevede di rendere pubbliche le quantità di polimeri utilizzate, ridurre l’uso di materiale vergine, eliminare gli imballaggi non riciclabili e non necessari e assicurare la messa in commercio di soli involucri riutilizzabili, riciclabili o compostabili. Per il report, hanno fornito i loro dati (oltre a 18 governi), anche 130 aziende, che rappresentano più di un quinto del mercato globale degli imballaggi in plastica. Tra queste Coca Cola, PepsiCo, Nestlé, Danone, Unilever, Mars, Henkel, L’Oreal, Colgate-Palmolive e l’italiana Ferrero.
Cala di poco la plastica vergine – Se dal 1950 al 2018 si è passati, con una crescita esponenziale, da circa 2 milioni di tonnellate di plastica vergine utilizzata a oltre 300 milioni di tonnellate, nel 2019 e nel 2020 si sono registrate per la prima volta riduzioni rispettivamente dello 0,6% e dell’1,2%. “Una traiettoria discendente – si spiega nel report – rafforzata da nuovi impegni per ridurre l’uso totale di plastica o plastica vergine in termini assoluti entro il 2025, che quest’anno è diventato un requisito obbligatorio per aderire al Global Commitment”. Si prevede, infatti, che questi obiettivi porteranno a una riduzione totale della plastica vergine utilizzata dai firmatari negli imballaggi di circa il 19% entro il 2025 (rispetto al dato del 2018). E che, insieme al raggiungimento dei target sul contenuto riciclato negli imballaggi, eviterebbe la produzione di circa 8 milioni di tonnellate di plastica vergine ogni anno (con un risparmio di 40 milioni di barili di petrolio). Ma siamo nel campo delle intenzioni.
Si punta sul contenuto riciclato e non su eliminazione e riuso – Di concreto c’è che la riduzione della plastica vergine utilizzata tra il 2018 e il 2020 è stata in gran parte determinata dall’aumento dell’uso di quella riciclata, principalmente negli imballaggi in PET rigido, come quello delle bottiglie di acqua e latte e di alcuni flaconi. E, comunque, si è passati dal 5,2% di contenuto riciclato (sul totale dell’imballaggio in plastica utilizzato dalle aziende) del 2018, al 6,3% del 2019 per arrivare all’8,2% nel 2020. Sulla base degli attuali obiettivi, circa l’80% della prevista riduzione del contenuto vergine per il 2025, continuerà a dipendere proprio dall’aumento del contenuto riciclato. Ma gli analisti osservano “un allarmante scarso investimento” per ridurre il ricorso al monouso: la maggior parte delle azioni (il 76%) “implicano la sostituzione con altra plastica o carta”, mentre solo per il 24% dei casi si tratta di “cambiamenti sostanziali”, come l’eliminazione diretta o il passaggio a modelli di riutilizzo. Di fatto, meno del 2% degli imballaggi in plastica dei firmatari del Commitment è stato progettato per essere riutilizzabile nel 2020. La quota è addirittura diminuita, passando dall’1,8% del 2019 all’1,6% del 2020. Più della metà di tutte le aziende che aderiscono non produce imballaggi in plastica riutilizzabili. Anche il livello di ambizione è basso: solo l’11% dei firmatari ha lanciato più di tre progetti pilota sul riutilizzo nel 2020, mentre il 56% non ne ha lanciato nessuno. Il risultato di tutto questo è che il 34,7% della plastica utilizzata negli imballaggi che nel 2020 le aziende hanno messo sul mercato non è né riutilizzabile, né compostabile e neppure riciclabile. Di conseguenza, il packaging che rientra in almeno una di queste opzioni rappresenta il 65,3% (percentuale in aumento di appena lo 0,5%), ma per la stragrande maggioranza perché è riciclabile. E si parla sempre di ciò che fanno le multinazionali che aderiscono all’iniziativa, senza considerare tutte le aziende che ogni giorno a livello globale operano in questo settore. L’80% del mercato degli imballaggi in plastica è fuori da azioni e impegni, mentre si prevede che la domanda di packaging in plastica raddoppierà nei prossimi due decenni.
Come si comportano i principali produttori (tra quelli che forniscono i dati) – Andando a guardare i dati delle prime cinque in termini di imballaggi in plastica immessi sul mercato nel 2020 (tra quelle che hanno aderito e fornito i dati) ci sono Coca-Cola Company (con 2,9 milioni di tonnellate), PepsiCo (2,3), Nestlé (1,2), Danone (717mila) e Unilever (690mila). Hanno tutte diversi obiettivi al 2025, più o meno ambiziosi, sulla riduzione della plastica vergine. Cosa hanno fatto nel 2020? La percentuale di impiego della plastica riciclata tra il 2018 e il 2019 è aumentata per tutte e cinque le multinazionali, soprattutto per Unilever (+10%), ma siamo ancora lontani dai target che si sono date. Qualche esempio: Coca-Cola, PepsiCo e Unilever dovrebbero arrivare al 25% entro il 2025, ma nel 2020 sono rispettivamente all’11,5, al 5 e all’11%. Coca-Cola, però, nell’ambito della sua strategia ‘World Without Waste’ ha annunciato nei mesi scorsi che prevede di utilizzare il 50% di materiale riciclato nei nuovi imballaggi entro il 2030. Nestlé è al 4% e deve raggiungere il 30% al 2025, mentre Danone è al 10,3% ma deve raggiungere il 50%.
Il riutilizzo resta una chimera – Emblematiche le percentuali di packaging in plastica che è riutilizzabile, riciclabile o compostabile. Solo Coca-Cola arriva alla quasi totalità (resta al 99%) di imballaggi che rispetta almeno uno di questi criteri, mentre non si muove la percentuale di PepsiCo (al 77%) e aumentano di appena l’1,5% quella di Danone (al 67%) e del 2% quella di Unilever (al 52%), mentre Nestlè peggiora, perdendo quattro punti percentuali e scendendo al 61%. Le tre opzioni (riutilizzabile, compostabili, riciclabili), però, sono molto diverse tra loro. Andando a verificare quella che è la strada maestra indicata dall’Europa, quindi il riutilizzo, la percentuale di imballaggio in plastica riutilizzabile nella maggior parte dei casi non si muove o peggiora, complice la pandemia. Una battuta d’arresto quella di Coca-Cola (che passa dal 4% del 2018 all’1,7% del 2020) e che trascina anche il dato generale. Il dato – ha riferito l’azienda – è in parte determinato dall’impatto sulle vendite della pandemia, ma la multinazionale ha annunciato che renderà riutilizzabile (o coperto dal sistema del vuoto a rendere) entro il 2030 il 25% degli imballaggi di tutte le bevande vendute nel mondo in bottiglie di vetro o plastica. PepsiCo era e resta a zero, mentre Nestlé era e resta all’1%. Non pervenuti i dati di Unilever, mentre Danone passa dal 3,7 al 4,8%.
Le aziende italiane – Nel report anche la Ferrero, l’azienda italiana che immette sul mercato le maggiori quantità di imballaggio in plastica: 110mila tonnellate, di cui solo il 3,5% è composto da plastica riciclata (il resto è plastica vergine di origine fossile). Nel complesso, invece, il 63,9% di imballaggio in plastica non è né riutilizzabile, né riciclabile, né compostabile. Andando a guardare la scheda dell’azienda, si scopre che la quota restante del 36,1% è interamente dovuta alla plastica riciclabile, mentre restano allo 0% sia la percentuale di plastica compostabile, sia quella del riutilizzo. Nell’ultimo anno, si spiega nel rapporto, sette aziende hanno lasciato il gruppo firmatario del Global Commitment perché “non disposti a soddisfare i requisiti obbligatori per la partecipazione” che includono la definizione di obiettivi quantitativi in linea con il Global Commitment e l’impegno a comunicare annualmente i progressi sui target. Tra queste anche Burberry, Marks and Spencer e Barilla che, come è noto, non produce solo pasta e che nel 2018 ha immesso sul mercato 15mila tonnellate di plastica. Come riportato nel dossier del 2020, l’azienda aveva eliminato “5 milioni di finestre trasparenti di plastica dalle sue scatole di pasta” e ridotto l’utilizzo di materiali multistrato del 29% “sostituendoli, nel 2019, con i monomateriali”. Entro il 2021, poi, si era posta l’obiettivo “di eliminare il 100% degli imballaggi multistrato rimanenti”.