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Lo chef Filippo LaMantia: “Servo io i clienti perché non trovo camerieri. Offro come base 22mila euro lordi l’anno, ma i ragazzi hanno cambiato mentalità”

Anche lo chef Filippo La Mantia si aggiunge alla nutrita pattuglia di cuochi che in queste settimane hanno lanciato l’allarme rosso che rischia di travolgere la ristorazione italiana: in cucina e nelle sale dei ristoranti italiani, manca il personale

di Francesco Canino

“Servo io i clienti perché non trovo camerieri: i ragazzi non vogliono più fare questo mestiere”. Anche lo chef Filippo La Mantia si aggiunge alla nutrita pattuglia di cuochi che in queste settimane hanno lanciato l’allarme rosso che rischia di travolgere la ristorazione italiana: in cucina e nelle sale dei ristoranti italiani, manca il personale. Il primo a far emergere la situazione era stato Antonino Cannavacciuolo, a cui qualche giorno fa si è aggiunto Alessandro Borghese (le polemiche per la sua frase, “sarò impopolare, ma non ho alcun problema nel dire che lavorare per imparare non significa essere per forza pagati”, ancora non si sono spente) e ancora gli stellati Viviana Varese ed Enrico Bartolini.

Non è dissimile il racconto fatto oggi a Cook del Corriere della Sera da La Mantia, che dopo aver chiuso il suo ristorante in Piazza Risorgimento a causa della pandemia, ha da poco riaperto al Mercato Centrale di Milano e ora parla apertamente di “dramma” nella ricerca del personale di sala: ottanta colloqui fatti di recente non hanno portato a nulla, tanto che il cuoco siciliano è costretto a servire in prima persona o ad appoggiarsi alle agenzie di catering che forniscono il personale ad ore. “Ma non posso andare avanti così ancora per tanto perché i costi stanno lievitando“, ammette nell’intervista. Poi passa ad analizzare le cause di questa mancanza cronica di personale, precisando che secondo lui non è vero che i giovani non vogliono lavorare e che il problema non è nemmeno legato ai soldi (“Offriamo come livello base 22 mila euro lordi l’anno, 1300-1400 euro netti al mese, per turni di 8 ore, soprattutto nella fascia 16-24, con straordinari pagati”, precisa).

E dunque cosa sta succedendo? Secondo La Mantia, i ragazzi hanno cambiato mentalità: “Fino a prima del Covid per loro era importante trovare un impiego, adesso è più importante avere tempo. Non sono disposti a lavorare fino a tarda notte o nei giorni di festa”. Per lo chef è in atto “un cambio epocale”, “una presa di coscienza quella di mettere al centro della propria vita il tempo, è la tendenza di questo momento storico”. Per questo sempre più persone chiedono di lavorare part time, di non lavorare la domenica o nei giorni di festa: “Ci sono due categorie di persone: quelle che vivono la ristorazione come una vocazione, che ne sono profondamente coinvolte, e quelle che la vivono come un lavoro. Queste ultime hanno lasciato. E i ventenni post Covid non cercano più questo, di lavoro“. Per La Mantia il problema è a monte ed è duplice perché in Italia manca la “cultura dell’accoglienza”, quello in sala non è visto come un’arte ma come un lavoro di ripiego e i pochi che accettano il posto lo vivono come una routine. “Prendere il piatto, posare il piatto. Non c’è attenzione, cura per il dettaglio. Del resto trovo che manchi l’amore per il servizio a livello culturale, di Paese: bisognerebbe lavorarci a partire dalle scuole”. E intanto La Mantia corre ai ripari e vista la mancanza di personale potrebbe cancellare il menu alla carta: “La sera terrò solo la formula buffet, che richiede meno servizio”.

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