Le polemiche di giornata tendono a oscurare i fatti. Quella tra il ministro Andrea Orlando e Confindustria sulla proposta di condizionare gli aiuti alle imprese ad incrementi salariali non dovrebbe far perdere di vista il cuore del problema, le possibili soluzioni – note a tutti gli attori in campo – e l’evidente incapacità dell’attuale governo e di quelli che l’hanno preceduto di fare qualcosa in proposito. Si parla di aumentare gli stipendi nell’unico Paese sviluppato che dal 1990 ha visto il salario annuo medio diminuire. Al netto di eventuali tagli del cuneo fiscale, che andrebbe però finanziato con un aumento delle tasse su ricchezza immobiliare e successioni come auspica l’Ocse, le strade sono quelle indicate l’anno scorso dal gruppo di lavoro sulla povertà lavorativa nominato dallo stesso Orlando: introdurre un salario minimo per legge, far valere i contratti collettivi “principali” di ogni settore per tutti gli occupati di quel comparto o almeno, in attesa di venirne a capo, sperimentare il minimo legale nei settori in cui i lavoratori sono più fragili. La seconda ipotesi richiede, in assenza di un accordo tra sindacati e imprese, una legge sulla rappresentanza.
Il ministro dem ha ben presenti queste alternative, da molto prima che la crescita dell’inflazione ora ulteriormente infiammata dall’invasione russa dell’Ucraina trasformasse un annoso problema in un’emergenza sotto gli occhi di tutti. Così come le conoscevano i predecessori. Basti dire che la legge delega sul Jobs Act renziano (2014) prevedeva la fissazione per legge di un salario minimo orario: quella parte è casualmente rimasta inattuata. Avanti veloce: nel marzo 2019 l’allora ministro del Lavoro Luigi Di Maio invocava una convergenza con il nuovo segretario del Pd Enrico Letta proprio sul salario minimo, chiedendogli di sostenere il disegno di legge a prima firma di Nunzia Catalfo. Nel settembre 2019 l’allora premier Giuseppe Conte annunciava “l’approvazione di una legge sulla rappresentanza sindacale, sulla base di indici rigorosi”, viatico per fissare il salario minimo prevedendo l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. Un intervento che metterebbe fine alla proliferazione dei contratti pirata sottoscritti sempre da sigle di rappresentanza minori, fittizie o “di comodo” per togliere dalle buste paga soldi e benefit.
Ovviamente nulla di fatto: la pandemia ha poi imposto altre priorità e, con lo zampino di Matteo Renzi, anche il governo. Nell’aprile 2021 quello guidato da Mario Draghi ha presentato alla Commissione Ue la versione definitiva del Recovery plan: l’introduzione di un salario minimo legale, presente nelle bozze precedenti, è stata espunta dal testo nonostante negli stessi giorni a Bruxelles stessero procedendo i lavori per arrivare a una proposta comunitaria in materia. Pochi giorni dopo (29 aprile) Orlando, in question time al Senato, ha spiegato che sarebbe stato necessario “restare dentro al quadro europeo” per “giungere a un’eventuale definizione normativa del salario minimo e soprattutto chiarire e risolvere il rapporto tra rappresentanza sindacale e salario minimo che nel nostro Paese rappresenta una difficoltà storica”. E intanto? “Occorre potenziare la contrattazione collettiva attraverso un intervento legislativo in materia di rappresentatività sindacale che credo sia necessaria a salvaguardare il salario minimo da fenomeni distorsivi e tutelare i lavoratori”.
Ancora nulla di fatto: è passato un anno e il ministro invece che accelerare frena. Mercoledì durante il convegno delle Agorà del Pd ha spiegato che “l’idea che una legge sulla rappresentanza sia una questione tabù per i sindacati non tiene più” e serve “un ragionamento in questa direzione ma sulla base di un accordo tra parti prima ancora che di una legge”. La legge quindi non serve più? “Penso sempre che una legge debba registrare l’evoluzione del dialogo sociale. Dopo di che il dialogo non può diventare un veto, ma credo auspicabile una condivisione“. Intanto i sindacati continuano a nicchiare sul salario minimo e Confindustria ripete come un mantra quel che sostiene da anni: gli stipendi possono salire solo se sale la produttività (come se fosse indipendente dagli investimenti e da scelte imprenditoriali miopi che puntano su produzioni a basso valore aggiunto). Ad appesantire le buste paga ci pensi lo Stato tagliando il cuneo fiscale. Ma ovviamente senza aumentare le tasse di successione o quelle sui patrimoni. Anche oggi, come aumentare davvero i salari si deciderà domani.