Con la bontà evangelica che ha sempre contraddistinto il suo mandato sacerdotale, don Albino Bizzotto, 82 anni, fondatore a Padova di “Beati i costruttori di pace”, spiega: “Volevo solo che questa storia si chiudesse. Vorrei che con i patteggiamenti non vi fossero altri strascichi. Per questo non ho voluto avviare una causa civile per il risarcimento dei danni e non ho fatto nessun accordo con gli imputati in tale senso. Ci troviamo di fronte a una realtà umana che è più emarginata dalla società perfino dei profughi. Il mio impegno continua e io i sinti continuo, per quanto possibile, ad aiutarli”.

È così che il “prete degli ultimi” commenta l’epilogo giudiziario di una vicenda umana e personale cominciata alcuni anni fa. È l’ultimo regalo che fa alle persone che lo hanno martoriato. Infatti, aggiunge: “Nessun accordo per i risarcimenti, non sono più povero o più ricco per questo… Non ho ricevuto nessuna lettera di scusa da parte loro, ma da un punto di vista umano volevo che la vicenda si chiudesse. Anche perché se quella gente chiede un aiuto e si ha un po’ di cuore, perché non darglielo? Io continua a farlo”.

Dal luglio 2018 all’agosto del 2020, undici sinti lo hanno letteralmente subissato con circa 14mila telefonate, richieste di soldi e di aiuti, inventandosi le più inverosimili delle giustificazioni. Lui non ci aveva pensato due volte, in nome della carità, aveva attinto ai propri risparmi e quando li ha esauriti si è rivolto ad aderenti del movimento pacifista, chiedendo dei prestiti. Alla fine però il conto è stato ragguardevole, 370mila euro che un gruppo che vive in Veneto ha ottenuto, giorno dopo giorno, spiegando di dover affrontare spese per avvocati, per il ritorno in Italia di parenti dall’estero, perfino per il trasferimento in elicottero da Milano a Padova di un malato di Covid. Don Albino ci è cascato e ha dato tutto, anche quello che non aveva.

Alla fine il fratello Egidio, dopo aver scoperto la voragine economica, si è rivolto all’avvocato Paolo Marson, il quale ha interessato la Finanza. È così scattato un blitz chiesto dalla Procura e autorizzato dal gip, con 6 arresti in carcere, 4 divieti ad altrettante persone di risiedere in Veneto ed un provvedimento di obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. Quasi due anni dopo la denuncia si è arrivati all’udienza preliminare. Davanti al gup Domenica Gambardella tutti e 11 hanno patteggiato una pena che va da un anno a un anno e 10 mesi di reclusione, per un totale di 16 anni complessivi. Le accuse erano di circonvenzione d’incapace aggravata dall’entità del danno patrimoniale causato e dal fatto che è stato preso di mira un ministro del culto, stalking, tentata estorsione e violazione di domicilio. Il pubblico ministero Giorgio Falcone ha dato il proprio consenso al patteggiamento, con assorbimento del reato in stalking nella circonvenzione d’incapaci.

Nella sede dei “Beati i costruttori di pace” è arrivata una cifra poco più che simbolica, irrisoria, rispetto all’entità del danno. Di sicuro il gruppo aveva individuato nella generosità di don Albino una gallina dalle uova d’oro, anche perché la sua disponibilità all’aiuto gli ha fatto perdere la lucidità di fronte a richiesta assolutamente fantasiose. È quello che il fratello del sacerdote aveva evidenziato nella denuncia: “Don Albino ha manifestato una completa ed incondizionata apertura” di fronte alle richieste di aiuto, mostrando una “acritica e totale fiducia nella loro sincerità e nella loro buone fede”. In qualche caso era stato anche ricattato, con la minaccia di mostrare alla comunità dei Beati le foto in cui si vedeva il sacerdote dare dei soldi ai nomadi. Il consiglio direttivo dell’associazione nel luglio 2020 aveva scritto: “Negli ultimi tempi, in particolare nel periodo del lockdown, don Albino ha ricevuto richieste continue e urgenti di denaro da persone sinti. Erano in contatto con lui da tempo ed avevano già accumulato cifre considerevoli come prestiti, ottenuti nell’arco di molti mesi e che si erano impegnate a restituire. Le richieste si sono fatte pressanti ed erano sempre legate alla restituzione delle somme prestate in precedenza”. Il sacerdote non possedeva i soldi che poi ha distribuito, per questi “aveva chiesto prestiti ad amici e conoscenti: aveva fiducia nelle parole dei richiedenti che gli assicuravano che le diverse cifre servivano variamente per pagare l’onorario di un avvocato, oppure per risarcire un danno commesso nel corso di un reato pregresso, o altro, e che la ‘pendenza’ impediva loro di ricevere dei fondi che spettavano loro, e con i quali avrebbero poi potuto restituire la somma”. Alla fine il movimento aveva istituito una commissione per gestire le attività di assistenza.

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