A quasi quattro anni dalla prima richiesta di rinvio a giudizio arriva dal Tribunale di Modena l’attesa sentenza di primo grado nel processo “white list“, che vede alla sbarra dodici persone imputate di minacce a corpo amministrativo dello Stato e rivelazione di segreto d’ufficio. L’imputato politicamente più importante è l’ex senatore Carlo Giovanardi, la cui posizione è stralciata in attesa del pronunciamento della Corte Costituzionale sul conflitto di attribuzioni sollevato dagli stessi giudici di Modena dopo che il Senato, il 16 febbraio scorso, si era espresso a favore della insindacabilità degli atti dell’allora parlamentare. La sentenza riconosce le responsabilità penali per le rivelazioni dei segreti d’ufficio e assolve invece gli imputati dall’accusa più grave, le minacce: il dispositivo è stato pronunciato dopo sei ore di camera di consiglio e dispone che i condannati dovranno risarcire le parti civili costituite a processo (la Regione Emilia Romagna, Libera, il sindacato CGIL e la sua associazione di categoria Fillea che rappresenta i lavoratori dell’edilizia). L’entità del risarcimento verrà stabilita in sede civile.
La vicenda riguarda i tentativi dei titolari di due ditte modenesi, la Bianchini Costruzioni srl e la Ios srl, di essere riammessi nell’elenco delle imprese “pulite” – la “white list”, appunto – dopo l’esclusione dovuta ai legami con uomini di punta della ‘ndrangheta emiliana portati alla luce dall’indagine Aemilia. In ballo c’erano appalti milionari per le opere di ricostruzione post terremoto del 2012 e la famiglia di Augusto Bianchini aveva amicizie influenti, che si prodigarono per condizionare le decisioni del Girer, il gruppo interforze costituito all’indomani del sisma proprio con l’obbiettivo di contrastare la criminalità organizzata nei suoi prevedibili tentativi di assalto agli appalti. Tra gli imputati l’ex viceprefetto di Modena Mario Ventura, condannato a dieci mesi con interdizione dai pubblici uffici per la durata della pena. Più pesante, 16 mesi, la condanna per il funzionario dell’Agenzia delle Dogane Giuseppe Mario De Stavola. Erano loro – ha ricostruito il processo – a passare le informazioni riservate ad Augusto Bianchini e al figlio Alessandro, a loro volta condannati a un anno e sei mesi di reclusione. Assolti per non aver commesso il fatto (o beneficiari della prescrizione) tutti gli altri imputati: il funzionario della Prefettura di Modena Daniele Lambertucci, la moglie dell’imprenditore Bianchini Bruna Braga, gli avvocati Giancarla Moscattini e Giulio Musto, tre esponenti di una agenzia di investigazioni, la “Safi”, collegata a non meglio precisati ambienti dei servizi segreti.
Ognuno di loro si adoperò a favore dei Bianchini, ma più di tutti – è l’accusa – lo fece il senatore Carlo Giovanardi, al quale giungevano le informazioni riservate che uscivano dalla Prefettura. Nel 2014 Giovanardi presentò anche due interpellanze parlamentari sul tema e partecipò a una conferenza stampa assieme ai Bianchini in cui denunciò l’abuso del ricorso alle interdittive antimafia. Ma l’azione più controversa, sulla quale si dovrebbe pronunciare il processo a suo carico se la Corte Costituzionale desse il via libera, è rappresentata dalle “pressioni e minacce”, come li definisce l’accusa, dell’ex senatore nei confronti dei due colonnelli Stefano Savo e Domenico Cristaldi, rispettivamente comandante dei Carabinieri di Modena e comandante del Reparto Operativo. Erano loro a rappresentare l’ostacolo maggiore per la riammissione delle imprese Bianchini alla White List, in quanto più volte non ritennero vi fossero elementi sufficienti e significativi di novità per modificare le decisioni prese. La sentenza di primo grado esclude che chiunque degli undici imputati abbia esercitato minacce per ottenere il risultato sperato, ma le frasi intercettate e le azioni del senatore Giovanardi sono cosa diversa e da valutare come a sé stanti.
La sentenza raccoglie la moderata soddisfazione degli avvocati difensori e lascia l’amaro in bocca ai sostituti procuratori Giuseppe Amara e Monica Bombana che avevano chiesto pene più pesanti. Quattro anni fa le prime richieste di rinvio a giudizio contestavano agli indagati anche l’aggravante del metodo mafioso, oltre a pressioni e minacce dirette a figure istituzionali come il Prefetto pro tempore di Modena e gli alti comandi dei Carabinieri. Dopo la riformulazione delle accuse e il passaggio dell’indagine dalla Direzione distrettuale antimafia alla Procura ordinaria – e due anni di processo di primo grado con una trentina di udienze – i fatti contestati restano gli stessi, ma la loro configurazione giuridica si è decisamente ridimensionata, e sull’intera vicenda pende la spada della prescrizione.