La giornalista de Il Fatto quotidiano e autrice del talk di Massimo Gramellini su Rai3, Le parole, racconta il suo romanzo storico ambientato a Mantova nel quale firma un patto di affidamento con il lettore, portandolo per mano dal novembre del 1918, il giorno dell’armistizio, all’agosto del ’45. In mezzo personaggi ed episodi di fantasia e fatti realmente accaduti
Silvia, il finale aperto del suo libro innesca una domanda che ci si aspetterebbe al termine di questa un’intervista: ci sarà un seguito?
Una curiosità lecita. Per come ho pensato il libro, immaginando di raccontare tutta la storia e la parabola di vita di Dora, sì: infatti inizialmente mi sono spinta fino agli anni ’60, poi ad un certo punto mi sono fermata.
Cos’è successo?
Non m’interessava sbrodolare, fare un tomo inutilmente lungo. Così sono tornata indietro, fermandomi al 1945, con la fine della Seconda guerra mondiale, e compattando la storia. Ho già scritto un centinaio di pagine di un ipotetico seguito ma molto dipenderà dalla risposata del lettore. “È bello scrivere perché riunisce le due gioie: parlare da solo e parlare a una folla”, diceva Cesare Pavese. Parlare da sola è un esercizio narcisistico che non mi appassiona.
Il suo romanzo è un viaggio a tratti ipnotico nella vita di Dora, nata poverissima in una baracca, viene salvata dal ricco commerciante mantovano Nino Benedini, che la accoglie in casa e le offre istruzione e riscatto sociale. Dora è una bambina che non fa rumore, dunque rischia di non esistere, ma diventa una donna che fa di tutto per riscrivere il suo destino.
Mi sono preoccupata che Dora fosse soprattutto autentica, non mi interessava che fosse eroica nei suoi gesti o che diventasse un’antieroina. Ho cercato di renderla vera più che un personaggio ruffiano e amabile per il lettore. M’interessava raccontare come alle donne fosse consentito molto poco a livello di scelte e consapevolezze, soprattutto se nascevi povera. Il riscatto non era nemmeno immaginabile fino a pochi decenni fa.
Qual è stato il clic che le ha fatto scattare la voglia d’immaginare Dora e la sua storia?
Non c’è stato un singolo momento. Forse era semplicemente arrivato il momento di mettere assieme tanti tasselli, compresi i racconti che ho introiettato dai miei nonni – soprattutto per quanto riguarda i ricordi del ventennio fascista – e dalla tata con cui sono cresciuta, una donna straordinaria che oggi ha 92 anni e che ha avuto un’infanzia poverissima: è stata lei a spiegarmi sin da piccola l’importanza di avere un’istruzione garantita.
Gli altri personaggi come li ha tratteggiati?
Da amante delle saghe familiari, dai Buddenbrook in poi, ci tenevo a delinearli con cura. Molto lo devo ai racconti di alcune prozie. Altri spunti mischiano fantasia e realtà. Eugenio, ad esempio, ha un tratto biografico – più che caratteriale – che lo accomuna a mio nonno, che faceva il medico: durante la Seconda guerra mondiale ha cominciato a curare i partigiani, rischiando la pelle. Non so con quanta coscienza politica lo fece, ma ha sempre convintamente detto di aver fatto la scelta giusta. È stato lui a farmi nascere.
L’intreccio tra finzione e realtà, fatti storici e fiction pura, è l’asse portare del suo romanzo. È stato più complicato l’aspetto di documentazione o di immaginazione?
In realtà la parte di documentazione storica, che ho curato molto, mi ha divertito parecchio: nel patto di affidamento con il lettore, volevo che fosse un romanzo storico e non un romanzo di ambientazione. Mi sono presa delle piccole libertà ma tutte plausibili e nello studio storico mi sono imbattuta in passaggi di cui sapevo poco o nulla, come la storia dei “bambini di Vienna”.
Sintetizzando, parliamo dell’ospitalità offerta da decine di italiani ai figli di famiglie povere di Vienna, a meno di un anno dalla fine della Grande guerra. È una parentesi della storia d’Italia che mi ha commosso, un caso di accoglienza e di generosità: fino a cinque minuti prima erano i nemici che avevano ucciso i loro figli, poco dopo aprono le porte di casa per ospitare i bambini austriaci. Una catena di solidarietà straordinaria.
Il suo romanzo comincia nel novembre del 1918, il giorno dell’armistizio, e si conclude nell’agosto del ’45. Il lavoro di preparazione è stato lungo?
La mole di studio è stata imponente, ma mi ha permesso di scoprire aspetti che non conoscevo, come la condizione dei bambini orfani a Mantova. O personaggi come Ada Sacchi, una femminista ante litteram che nel 1902 diventò la prima direttrice di una biblioteca in Italia, che poi ho inserito nel romanzo.
Ad un certo punto della storia, Dora finisce persino per conoscere Gabriele D’Annunzio, che la invita ad una festa al Vittoriale.
Quel capitolo è ispirato ai racconti di mia nonna che a Gardone, ospite di una sua zia, conobbe D’Annunzio. Lo scrittore la invitò ad una festa al Vittoriale e quell’episodio me lo sono fatta raccontare duecento volte.
Cosa le raccontava?
S’immagini la vita ritiratissima che le ragazze facevano all’epoca: lei rimase travolta, un po’ come Bovary al ricevimento del marchese di Andervilliers, dalla ricchezza e dallo sfarzo. Per prepararmi ho studiato anche la corrispondenza copiosissima che D’Annunzio aveva con le sue amanti occasionali: era spudorato e di appetiti voracissimi.
Il cielo sbagliato è anche una dichiarazione d’amore alla sua città, Mantova.
Sicuramente in parte sì. Avevo questa idea da un po’ di tempo e durante il lockdown l’ho sviluppata: è stato come tornare nei miei luoghi e con le persone che amavo e amo, mentre non potevo starci.
Le piacerebbe che il libro diventasse una serie tv?
Se un regista o un produttore se ne innamorassero, perché no. Il mio stile di scrittura è molto per immagini: la sinossi l’ho fatta per scene e questo mi ha molto aiutato. E poi Mantova sarebbe una scenografia naturale perfetta.
La foto di copertina che nesso ha con il libro?
Apparentemente nessuno, tra le pieghe del caso diversi. Ho visto questa foto pubblicata su una rivista americana di moda, negli anni ’40: me ne sono innamorata e l’ho scelta subito. Poi facendo qualche ricerca è emerso che la modella indossava un abito della stilista Irina Roudakoff Belotelkin che il mondo ha conosciuto come Irina Roublon, la cui vita è stata incredibile.
Chi era?
Era la figlia di un generale russo ucciso durante la guerra civile: la madre morì cinque giorni dopo a causa del tifo e lei, da sola a otto anni, raggiunse Mosca percorrendo quasi mille chilometri in una fuga pericolosa e disperata. Da lì, nel ’29 raggiunse l’America dove tra alti e bassi, fortune e vicende drammatiche trova la sua strada e da artista poliedrica qual è fonda a San Francisco un marchio di moda grazie al quale verrà ribattezzata “la Coco Chanel” della costa ovest. Si dice che Dior le invidiasse il taglio dei cappotti. La sua è una storia di tenacia, di rise and fall e di determinazione che mi ricorda molto quella di Dora.
Ultima domanda: poi l’ha capito qual è il cielo sbagliato?
Ho capito che in fondo non esiste. Il titolo s’ispira al bombardamento di San Valentino, avvenuto realmente su Mantova nel ’44, in cui accade una vicenda chiave per il romanzo. Mi piaceva l’idea di raccontare la storia di due donne, Dora e Irene, i cui destini s’incrociano pur avendo storie distanti e ambizioni contrastanti. Ciò che le unisce è una solidarietà tutt’altro che scontata, un’empatia che lega due mondi antitetici ma pur sempre uniti dallo stesso cielo.