La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima l’attribuzione automatica del cognome paterno al figlio. Alla buon’ora, dovevamo aspettare il 2022 per uscire realmente dal Medioevo! Per la verità, non appena sono rimasta incinta, ho espresso il desiderio di poter dare a mia figlia anche il mio cognome. Purtroppo, a parte la giurisdizione poco favorevole, mi sono scontrata soprattutto con una società fondata sul patriarcato e sull’obsoleta idea che l’uomo debba sempre avere la precedenza sulla donna, perché l’unico nome che vale la pena portare avanti nelle generazioni è quello paterno.

Il doppio cognome era una cosa assolutamente da escludere, una specie di fantasia partorita dalla mia mente malata. Perché tua figlia dovrebbe avere due cognomi? Che bisogno ha, visto che basta quello del padre? E certo, d’altronde il mio compito è finito: nove mesi, contornati da pericolosi sbalzi ormonali, dolori e gonfiori, per non parlare delle ripercussioni psicologiche causate dal cambiamento che subisce il corpo, il travaglio di 12 ore e poi “Donna, partorirai con dolore”. E dopo tutto questo, manco il cognome!

Tante battaglie per la parità dei sessi, eppure siamo sempre stati fermi nello stesso punto: l’uomo è considerato la colonna portante della famiglia ed è il suo cognome che ne determina l’identità. Basti pensare al fatto che un figlio non riconosciuto dal padre veniva definito col termine “bastardo”, che ha ovviamente una connotazione dispregiativa e che, contemporaneamente, definisce la donna con altrettanto spregio.

In questa società fallocentrica, il vero problema è proprio quello dell’identità della donna, che nel matrimonio è troppo spesso accantonata per far spazio a quella dell’uomo. Negli Stati Uniti o in Francia, ad esempio, le donne in seguito al matrimonio perdono il loro cognome e acquisiscono quello del marito. Storicamente le donne erano infatti considerate come una proprietà, che veniva semplicemente spostata dalla casa del padre a quella del marito, da un nucleo familiare all’altro, ma entrambi aventi come fulcro l’uomo. Era perciò ritenuto normale prendere il cognome di quest’ultimo.

La struttura patriarcale ha dominato per molto tempo e domina ancora parecchio: soltanto nella storia recente le donne sono state in grado di cambiare la loro posizione nella società e di scegliere, tra le altre cose, se mantenere o meno il proprio cognome in caso di matrimonio. E in ogni caso, sia all’estero che in Italia, l’augurio migliore che si possa fare ad una coppia di neo sposi è sempre stato quello di avere figli maschi, che possano portare avanti il cognome per generazioni. Il punto vero è che il problema della parità di genere ha radici molto antiche e ben piantate nel terreno e riguarda diversi aspetti della vita, non solo quello strettamente familiare.

Potremmo parlare della disparità di trattamento economico tra uomini e donne in ambito lavorativo, per esempio: le donne sono inspiegabilmente sottopagate rispetto a un uomo che ricopre lo stesso incarico e tendenzialmente, in una qualsiasi azienda, salvo casi eccezionali, difficilmente occupano posizioni di comando. Dunque, il cognome è solo la punta dell’iceberg di quella tendenza vecchia quanto il mondo a considerare la donna sempre e comunque un gradino sotto l’uomo.

Questa nuova delibera della Consulta rappresenta un piccolo passo in avanti rispetto al triste passato, perché restituisce alla donna la centralità che non ha mai avuto, perché elimina un automatismo di stampo maschilista e garantisce al figlio il diritto di avere un’identità anagrafica non più legata esclusivamente al padre. Almeno in ambito familiare, possiamo affermare che finisce l’era del patriarcato e, citando le parole di Nairobi ne La Casa di Carta: “empieza el matriarcado!” Forse.

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